3


Anche Annabel, come chi scrive, aveva ascendenze miste: nel suo caso, metà inglesi e metà olandesi. Oggi i suoi lineamenti mi appaiono molto più confusi di qualche anno fa, prima che conoscessi Lolita. Ci sono due tipi di memoria visiva: l'uno è quando ricrei con perizia, a occhi aperti, un'immagine nel laboratorio della mente (e allora vedo Annabel in termini generici come: «pelle color miele», «braccia esili», «capelli alla maschietta», «lunghe ciglia», «bocca grande e lucente»); l'altro quando evochi d'un tratto, a occhi chiusi, nel buio interno delle palpebre, la replica oggettiva, esclusivamente ottica di un viso amato, un piccolo fantasma dal colorito naturale (e così vedo Lolita).
Lasciate quindi che, nel descrivere Annabel, mi limiti compostamente a dire che era una ragazzina adorabile, più giovane di me di qualche mese. I suoi genitori, vecchi amici di mia zia e barbosi quanto lei, avevano affittato una villa non lontano dall'Hôtel Mirana. Calvo e abbronzato il signor Leigh, grassa e incipriata la signora Leigh (nata Vanessa van Ness); ah, come li odiavo! In principio, Annabel e io parlammo di cose inessenziali. Lei continuava a far scorrere tra le dita manciate di sabbia fina. I nostri cervelli erano in sintonia con quelli dei ragazzini europei e intelligenti dei nostri giorni e del nostro ambiente, e dubito che l'interesse che dimostravamo per la pluralità dei mondi abitati, il tennis agonistico, l'infinito, il solipsismo e così via potesse considerarsi individualmente geniale. La morbidezza e la fragilità dei cuccioli ci procurava la medesima, intensa sofferenza. Lei voleva fare l'infermiera in qualche affamato paese asiatico; io volevo diventare una celebre spia.
Tutt'a un tratto ci innamorammo, pazzamente, goffamente, spudoratamente, tormentosamente; e senza speranza, dovrei aggiungete, perché l'unico modo di placare quella mutua frenesia di possesso sarebbe stato assorbire, assimilare sino all'ultima particella lo spirito e la carne dell'altro; e invece non potevamo neanche accoppiarci come due monelli di periferia avrebbero senz'altro trovato il modo di fare. Dopo uno spericolato tentativo di incontrarci di notte nel suo giardino (ma di questo parlerò più avanti) godemmo di un'intimità limitata, fuori dal campo uditivo, ma non visivo, dei bagnanti sulla parte affollata della plage. Là, a pochi passi dai grandi, stavamo sdraiati tutta la mattina sulla rena soffice in un pietrificato parossismo di desiderio, e approfittavamo di ogni benedetto lapsus dello spazio e del tempo per toccarci: la sua mano, seminascosta dalla sabbia, avanzava furtiva verso di me; le sottili dita abbronzate, come sonnambule, si facevano sempre più vicine; e poi il suo ginocchio opalescente iniziava un lungo, cauto tragitto; qualche volta un bastione occasionale, costruito dai bambini più piccoli, ci forniva riparo sufficiente per sfiorarci le labbra cosparse di salsedine. Quei contatti incompleti portavano i nostri giovani corpi, sani e inesperti, a un tale stato di sovreccitazione che neppure l'acqua fredda e azzurra, nella quale continuavamo ad abbrancarci, poteva darci sollievo.
Fra alcuni tesori perduti nei vagabondaggi dell'età adulta c'era un'istantanea scattata da mia zia: Annabel, i suoi genitori e un certo dottor Cooper, un signore posato, anziano e claudicante che quella stessa estate faceva la corte a mia zia, sedevano all'aperto al tavolino di un caffè. Annabel non era riuscita bene, colta nell'atto di chinarsi sul suo chocolat glacé, e gli unici tratti identificabili (a quanto posso ricordare di quell'immagine), nel sole sfocato in cui sfumava la sua bellezza perduta, erano le esili spalle nude e la scriminatura dei capelli; ma io, un po' discosto dagli altri, spiccavo con una sorta di drammatico risalto: un ragazzo imbronciato con le sopracciglia folte, una scura camicia sportiva e calzoncini bianchi di buon taglio, le gambe incrociate, seduto di profilo, lo sguardo altrove. La foto risaliva all'ultimo giorno di quella nostra estate fatale, e ad appena qualche minuto prima del nostro secondo, estremo tentativo di contrastare il destino. Col più futile dei pretesti (era la nostra ultimissima occasione, e non ci importava di nient'altro) fuggimmo dal caffè alla spiaggia, e lì, in un tratto solitario, all'ombra violetta di certe rocce rosse che formavano una sorta di grotta, ci abbandonammo a un rapido scambio di avide carezze a cui assistette soltanto un paio di occhiali da sole perduto da qualcuno. Io ero in ginocchio, e sul punto di possedere il mio tesoro, quando due bagnanti barbuti, il vecchio del mare e suo fratello, emersero dai flutti lanciando una salva di scurrili incoraggiamenti. Quattro mesi dopo Annabel morì di tifo a Corfù.

Nessun commento: