10
Uscito dall'ospedale cominciai a cercare nel New England, in campagna o in una cittadina sonnolenta (olmi, chiesetta bianca), un posto dove poter trascorrere un'estate operosa, sostentandomi con una compatta cassa di appunti che ero andato accumulando e bagnandomi in qualche lago dei dintorni. Il lavoro mi interessava di nuovo, voglio dire i miei esercizi d’erudizione; l’altro, l'attiva partecipazione ai profumi postumi dello zio, era ormai ridotto al minimo. Uno dei suoi ex dipendenti, il rampollo di una famiglia illustre, mi propose di andare per qualche mese da un suo cugino, il signor McCoo, che aveva avuto dei rovesci di fortuna e adesso era in pensione; lui e la moglie intendevano affittare l'ultimo piano di casa loro, dove aveva delicatamente abitato un'anziana zia defunta. Disse che avevano due figliolette, l'una in fasce, l'altra sui dodici anni, e un bellissimo giardino non lontano da un bellissimo lago. Risposi che mi sembrava tutto perfettamente perfetto
Dopo uno scambio di lettere si convinsero che ero addomesticato, e trascorsi sul treno una notte sublime, fantasticando su ogni possibile dettaglio dell'enigmatica ninfetta cui avrei dato ripetizioni di francese accarezzandola in humbertesco. Nessuno venne a prendermi alla stazione giocattolo dove scesi con la mia costosa valigia nuova; nessuno rispondeva al telefono; e alla fine McCoo, fradicio e sconvolto, mi raggiunse nell'unico albergo della verde e rosea Ramsdale per comunicarmi che la sua casa era appena stata rasa al suolo da un incendio – forse in seguito alla sincrona conflagrazione che aveva imperversato tutta la notte nelle mie vene. Moglie e figlie, mi disse, erano fuggite con la macchina in una fattoria di sua proprietà, ma un'amica di sua moglie, una persona squisita, la signora Haze, Lawn Street 342, si offriva di ospitarmi. La dirimpettaia di questa Haze gli aveva prestato la sua limousine, una vettura deliziosamente antiquata, dal tetto quadro, con un negro gioviale al volante. Ora che l'unica ragione di quel mio viaggio si era dileguata, la sistemazione di cui sopra non aveva giustificazione alcuna. D'accordo, la sua casa andava ricostruita da cima a fondo; e allora? Ce l'aveva un'assicurazione, sì o no? Ero furente, deluso e seccatissimo, ma nella mia qualità di europeo beneducato non potevo esimermi da quella spedizione in carro funebre fino a Lawn Street; temevo che McCoo, pur di liberarsi di me, potesse escogitare qualcosa di ancor più cervellotico. Lo vidi sgattaiolare via, e il mio autista scosse il capo con una risatina. Strada facendo giurai a me stesso che per nulla al mondo sarei rimasto a Ramsdale; avrei preso quel giorno stesso il primo aereo per le Maldive, le Mauritius o le Malebolge. Era già un po' di tempo che le dolci possibilità di certe spiagge in technicolor mi stillavano lungo la spina dorsale; in realtà il cugino di McCoo, con quel suo premuroso consiglio dimostratosi ora assolutamente inane, non aveva fatto che stornare bruscamente il filo dei miei pensieri.
A proposito di brusche deviazioni: mentre sterzavamo per imboccare Lawn Street, per poco non investimmo un invadente cane suburbano (uno di quelli che aspettano le automobili sdraiati in mezzo alla strada). E, poco oltre, ecco casa Haze: un orrore di legno bianco dall'aria squallida e vetusta, più che bianca, grigia... una di quelle case in cui sai già che invece della doccia c'è un tubo di gomma applicabile al rubinetto della vasca. Diedi la mancia all'autista sperando che se ne andasse immediatamente, consentendomi così di fare dietro-front e tornarmene zitto zitto all'albergo e alla valigia; ma lui si limitò a portarsi all'altro lato della strada, dove un'anziana signora lo chiamava dalla veranda. Che potevo fare? Suonai il campanello.
Mi accolse una cameriera negra, che mi piantò sullo zerbino per tornare a precipizio in cucina, dove stava bruciando qualcosa che non doveva bruciare. L'ingresso era guarnito da un vezzoso carillon collegato alla porta, da un mostriciattolo di legno con le orbite bianche, genere artigianato messicano, e dallo scontato beniamino dei borghesucci con pretese artistiche, l'Arlésienne di van Gogh. Sulla destra, da una porta socchiusa, si intravedeva un salotto, con ulteriore paccottiglia messicana in un'angoliera e un sofà a strisce contro il muro. In fondo al corridoio c'erano le scale, e mentre mi asciugavo la fronte (non m'ero accorto di quanto facesse caldo, fuori) e fissavo, tanto per fissare qualcosa, una vecchia palla da tennis grigia su una cassapanca di quercia, dal pianerottolo giunse la voce di contralto della signora Haze, la quale, sporgendosi dalla ringhiera, domandò melodiosa: «È lei, Monsieur Humbert?». Insieme alla voce scese anche un po' di cenere di sigaretta. Poco dopo la signora in persona – sandali, pantaloni marrone, blusa di seta gialla, faccia quadrata, in quest'ordine – scese i gradini, l'indice che ancora picchiettava la sigaretta.
Sarà meglio che la descriva subito, per togliermi il pensiero. La poveretta era sui trentacinque anni; aveva la fronte lucida, le sopracciglia depilate e i tratti piuttosto elementari ma non sgradevoli, del tipo che si potrebbe definire una soluzione molto diluita di Marlene Dietrich. Tastandosi lo chignon di un castano bronzeo mi condusse in salotto, dove ci intrattenemmo per un minuto sull'incendio di casa McCoo e sui pregi della vita a Ramsdale. Gli occhi verde mare, molto distanziati, avevano uno strano modo di viaggiarti addosso, evitando scrupolosamente di incontrare il tuo sguardo. Il sorriso non era che lo scatto interrogativo di un sopracciglio; e mentre parlava continuava a svolgere le sue spire dal divano per gettarsi spasmodicamente verso tre posacenere e il vicino caminetto (dove giaceva il bruno torsolo di una mela); dopodiché sprofondava di nuovo nei cuscini, una gamba piegata sotto di sé. Era palesemente una di quelle donne nelle cui parole forbite si riflette magari un club del libro, o del bridge, o qualche altra micidiale banalità, ma mai l'anima; donne completamente prive di senso dell'umorismo; donne del tutto indifferenti, in cuor loro, alla dozzina di possibili argomenti da salotto, ma molto attente alle regole della conversazione di per sé, attraverso il cui solare cellophane si possono facilmente discernere frustrazioni non molto appetitose. Nell'improbabilissima eventualità che rimanessi, sapevo perfettamente con quanto metodo si sarebbe accinta a riservarmi il trattamento certo implicito, per lei, nel fatto stesso di prendere un pensionante; e mi sarei trovato di nuovo impegolato in una di quelle uggiose relazioni che conoscevo così bene.
Ma stabilirmi lì era fuori questione. Non potevo essere felice in quel genere di casa, con le sedie ingombre di riviste bisunte e una sorta di orrendo ibrido tra la farsa del cosiddetto «funzionale arredamento moderno» e la tragedia delle sedie a dondolo decrepite e dei tavolini rachitici sovrastati da lampade defunte. Mi condusse di sopra, e poi a sinistra, nella «mia» camera. La ispezionai attraverso la bruma in assoluta ripulsa, ma riuscii a distinguere sopra il «mio» letto la Sonata a Kreutzer di René Prinet. E pensare che la chiamava «camera-studio» – quel solaio per la servitù! Filiamocela subito di qui, mi dissi con fermezza, mentre fingevo di soppesare la somma minacciosamente risibile che la mia trepidante padrona di casa mi chiedeva per vitto e alloggio.
Tuttavia, la mia cortesia di vecchio stampo mi impedì di sottrarmi subito a quel cimento. Traversammo il pianerottolo e raggiungemmo il lato destro della casa («dove ci sono la stanza mia e quella di Lo», essendo Lo presumibilmente la domestica), e a stento l'inquilino-amante riuscì a trattenere un brivido quando, da maschio estremamente schizzinoso qual era, gli fu concessa un'anteprima dell'unico bagno, un minuscolo vano oblungo tra il pianerottolo e la stanza di «Lo», con flosce cose gocciolanti appese su una vasca dall'aria sospetta (dentro, il punto interrogativo di un capello); c'erano anche le previste volute del serpente di gomma, con il loro pendant – la vezzosa, scolorita foderina rosa sul coperchio del water.
«Vedo che non le ha fatto una grande impressione» disse la signora, posandomi per un attimo la mano sulla manica. C'era in lei una placida insolenza – l'eccesso di quella che mi pare si chiami «padronanza» –, combinata con una timidezza e una melanconia che davano alle sue parole, scelte ad arte, il tono innaturale del professore di retorica. «Sì, lo ammetto, la casa non è a posto,» continuò la povera condannata «ma le assicuro (mi guardava le labbra) che si troverà molto bene, anzi benissimo. Lasci che le mostri il giardino» (queste ultime parole con più brio e un guizzo accattivante nella voce).
La seguii di nuovo con riluttanza giù per le scale, e poi per la cucina in fondo al corridoio, sul lato destro della casa, dove c'erano anche la stanza da pranzo e il salotto (sotto la «mia» camera, sulla sinistra, c'era soltanto un garage). In cucina la domestica negra, giovane e grassoccia, prese la borsona di vernice nera dalla maniglia della porta che dava sul retro: «Io vado, signora Haze». «Sì, Louise» rispose la signora Haze con un sospiro. «Facciamo i conti venerdì». Attraverso una piccola dispensa entrammo nella stanza da pranzo, parallela al salotto che avevamo già ammirato. Notai un calzino bianco sul pavimento. La Haze, senza fermarsi, lo raccolse con un brontolio e lo gettò in un armadio vicino alla dispensa. Esaminammo brevemente un tavolo di mogano con una fruttiera al centro, che conteneva soltanto il nocciolo ancora luccicante di una sola prugna. Frugai in una tasca per cercare l'orario, e di nascosto lo tirai fuori per consultarlo appena possibile. Camminavo ancora alle spalle della Haze attraverso la sala da pranzo, quando, più in là, scorsi un improvviso tripudio di verzura – «la loggia!» cinguettò la mia guida –, e poi, senza il minimo preavviso, un'azzurra onda marina si gonfiò sotto il mio cuore, e su una stuoia immersa in una polla di sole, seminuda, sdraiata, e poi in ginocchio, e poi voltata sulle ginocchia, ecco la mia innamorata della Costa Azzurra che mi squadrava al di sopra degli occhiali scuri.
Era la stessa bambina – le stesse spalle fragili e sfumate di miele, la stessa schiena nuda, serica e flessuosa, gli stessi capelli castani. Un foulard nero a pois, annodato sul petto, nascondeva ai miei occhi di attempato scimmione, ma non allo sguardo della giovane memoria, i seni immaturi che avevo accarezzato un giorno immortale. E come la nutrice nella fiaba della principessina (perduta, rapita, scoperta nei laceri panni di una zingarella, attraverso i quali la sua nudità sorrideva al re e ai suoi segugi) riconobbi il minuscolo neo bruno sul suo fianco. Sgomento ed esultante (il re che piange di gioia, lo squillo delle trombe, la nutrice ubriaca) rividi il suo adorabile addome rientrante, dove la mia bocca, diretta a sud, aveva brevemente indugiato; e quei fianchi puerili sui quali avevo baciato l'impronta merlata dell'elastico dei calzoncini – quell'ultimo, folle giorno immortale dietro le «Roches Roses». I venticinque anni che avevo vissuto da allora si affusolarono in una punta palpitante e svanirono.
Mi è molto difficile esprimere con forza adeguata quel lampo, quel brivido, quell'empito di appassionata agnizione. Nell'attimo iniettato di sole in cui il mio sguardo scivolò sulla bambina inginocchiata (le palpebre che battevano al di sopra di quei severi occhiali scuri – la piccola Herr Doktor che mi avrebbe guarito da tutti i miei dolori), mentre le passavo accanto travestito da adulto (un grande, possente, splendido esemplare di virilità hollywoodiana), il vuoto aspirante della mia anima riuscì a risucchiare tutti i dettagli della sua radiosa bellezza, che paragonai a quelli corrispondenti della mia promessa sposa defunta. Presto, naturalmente, lei, questa nouvelle, questa Lolita, la mia Lolita, avrebbe eclissato completamente il suo prototipo. Voglio solo sottolineare che, da parte mia, la sua scoperta fu una fatale conseguenza di quel «principato sul mare» del mio tormentato passato. Tutto, fra quei due eventi, era stato soltanto un susseguirsi di brancolamenti ed errori, di menzogneri embrioni del piacere. Tutto ciò che li accomunava ne faceva una cosa sola.
Ma non mi illudo: i miei giudici vedranno tutto questo come il ridicolo teatrino di un pazzo, un pazzo grossolanamente proclive al fruit vert. Au fond, ça m'est bien égal. Io so soltanto che mentre la Haze e io scendevamo in quel giardino dal fiato mozzo, le mie ginocchia erano come ginocchia riflesse nell'acqua increspata, e le mie labbra come sabbia, e...
«Quella era la mia Lo,» disse la Haze «e questi sono i miei gigli».
«Sì,» risposi «sì. Sono belli, belli, bellissimi!».
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