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Il reperto numero due è un'agendina rilegata in finta pelle nera, con un anno dorato, il 1947, inciso en escalier sull'angolo in alto a sinistra. Parlo di questo grazioso prodotto della Ics-Ipsilon, Ipsilant, Michigan, come se l'avessi davvero davanti agli occhi. In realtà è andato distrutto cinque anni fa; ciò che esaminiamo ora (per cortese concessione della memoria fotografica) è soltanto la sua fuggevole materializzazione, una sparuta, implume fenice.
Ricordo con tanta precisione quel diario perché, in verità, lo scrissi due volte. Prima buttavo giù ogni appunto a matita (con molte cancellature e correzioni) sui fogli di quel che in commercio è conosciuto come «blocco»; e poi copiavo il tutto, con lapalissiane abbreviazioni, sull'agendina nera sopra menzionata, con la mia scrittura più minuscola e satanica.
Nel New Hampshire il 30 maggio è per decreto Giorno di Digiuno, ma non nelle due Caroline. Quel giorno un'epidemia di «influenza addominale» (che cosa sia, non lo so) costrinse le scuole di Ramsdale a chiudere i battenti sino alla fine dell'estate. Quanto ai dati meteorologici, il lettore può controllarli sul «Ramsdale Journal» del 1947. Io mi ero trasferito in casa Haze da qualche giorno, e il piccolo diario che ora mi propongo di riscrivere macchinalmente (pressappoco come una spia ripete a memoria il contenuto del biglietto che ha ingoiato) copre la maggior parte del mese di giugno.
Giovedì. Giornata caldissima. Dal mio osservatorio (finestra del bagno) ho visto Dolores che ritirava il bucato nella luce verde mela dietro la casa. Sono uscito a fare quattro passi. Aveva una camicia scozzese, i blue jeans e le scarpe da tennis. Ognuno dei suoi movimenti, nella luce maculata del sole, pizzicava la corda più sensibile e recondita del mio corpo abietto. Dopo un po' mi si è seduta accanto sul gradino più basso del terrazzino e si è messa a raccogliere i sassolini che aveva in mezzo ai piedi – sassolini, Dio mio, e poi un vetro incurvato, residuo di una bottiglia del latte, che sembrava un labbro ringhiante – e a tirarli contro una lattina. Ping. No, basta! Non puoi colpirla di nuovo. È una tortura! Di nuovo. Ping. Pelle mirabile, oh, mirabile: tenera e brunita, senza la minima imperfezione. I gelati con lo sciroppo fanno venire l'acne. La sostanza untuosa, detta sebo, che nutre i follicoli piliferi della pelle crea, quando è in eccesso, un'irritazione che apre la via alle infezioni. Ma le ninfette non hanno l'acne, benché s'ingozzino di cibi pesanti. Dio, che tormento quel serico lucore sulla tempia, che va digradando nel castano luminoso dei capelli! E l'ossicino che palpita sul fianco della caviglia impolverata! «Chi, la McCoo? Ginny McCoo? Oh, è un orrore. E cattiva, anche. E zoppa. Per un pelo non è morta di poliomielite». Ping. Gli scintillanti arabeschi di peluria sull'avambraccio. Quando s'è alzata per portar dentro i panni ho potuto adorare a distanza il posteriore scolorito dei jeans arrotolati fino a metà polpaccio. L'insulsa Haze, completa di macchina fotografica, è spuntata dal prato come il chimerico albero di un fachiro, e dopo alcune manovre eliotropiche – sguardo triste in su, sguardo lieto in giù – ha avuto la sfrontatezza di immortalarmi mentre sedevo sui gradini strizzando gli occhi, Humbert le Bel.
Venerdì. L'ho vista andare in qualche posto con una brunetta di nome Rose. Perché il suo modo di camminare – una bambina, badate, nient'altro che una bambina! – mi eccita così mostruosamente? Analizziamolo. Gli alluci appena appena all'indentro. Una sorta di sussultante scioltezza sotto il ginocchio, prolungata sino alla fine di ogni passo. L'ombra di uno strascichio. Molto infantile, infinitamente adescante. Humbert Humbert è infinitamente commosso anche dal gergo della piccola, dalla sua voce agra e acuta. Più tardi l'ho sentita bersagliare Rose, dall'altra parte della siepe, con una serie di grossolane sciocchezze. Mi vibravano dentro, stridule, con un ritmo crescente. Pausa. «Ora devo andare, piccola».
Sabato. (Prime righe forse rimaneggiate). Lo so che è da pazzi tenere questo diario, ma il farlo mi dà uno strano brivido; e solo una moglie amorosa potrebbe decifrare la mia microscopica grafia. Lasciatemi dichiarare con un singhiozzo che oggi la mia L. ha preso il sole sulla cosiddetta «loggia», ma sua madre e un'altra signora erano sempre tra i piedi. Certo, avrei potuto mettermi sulla sedia a dondolo e fingere di leggere, ma per non correre rischi ho girato al largo: temevo che l'orribile, insano, ridicolo e patetico tremore che mi scuoteva mi avrebbe impedito di fare la mia entrée con una minima parvenza di disinvoltura.
Domenica. Il fiotto di calore non ci lascia; settimana delle più favoniane. Stavolta ho guadagnato una posizione strategica sulla sedia a dondolo della loggia, con giornale obeso e pipa nuova, prima della comparsa di L. Con mia cocente delusione è arrivata con sua madre, entrambe in due pezzi neri, nuovi come la mia pipa. Il mio tesoro, la mia passione mi si è fermata accanto per un attimo (voleva la pagina dei fumetti), e aveva quasi l'identico odore dell'altra, quella della Costa Azzurra, ma più intenso, con sfumature più crude – un torrido afrore che ha subito messo in moto la mia virilità; ma già mi aveva strappato l'agognata rubrica e s'era ritirata sulla stuoia, accanto a mamma foca. Là la mia bellezza s'è sdraiata bocconi, mostrando a me e alle mille pupille sgranate del mio sangue occhiuto le scapole appena sollevate, e la peluria lungo l'incurvatura della spina dorsale, e il gonfiore delle sode, strette natiche fasciate di nero, e la balneare esposizione delle cosce da scolaretta. In silenzio, l'alunna di seconda media leggeva con diletto i suoi fumetti verdi rossi e blu. Era la più bella ninfetta che Priapo – verde rosso e blu – potesse escogitare. Mentre, con le labbra aride, continuavo a guardarla attraverso iridescenti strati di luce, mettendo a fuoco la mia libidine e dondolandomi appena sotto il giornale, mi sono reso conto che il vederla così, se mi concentravo in modo adeguato, poteva bastare a procurarmi immediatamente un godimento da poveracci; ma come un rapace che preferisca una preda in movimento a una immobile, ho progettato di far coincidere quel misero trionfo con uno dei vari movimenti puerili che lei faceva di tanto in tanto nel leggere, come cercare di grattarsi in mezzo alla schiena rivelando un'ascella punteggiata – ma di colpo la grassa Haze ha rovinato tutto girandosi verso di me per chiedermi un fiammifero, e dando inizio a una pseudoconversazione sul libro fasullo di un qualche impostore di successo.
Lunedì. Delectatio morosa. Trascorrono tetre e lente le mie dolorose giornate. Questo pomeriggio dovevamo andare (mamma Haze, Dolores e io) al vicino Lago a Clessidra, per fare il bagno e crogiolarci al sole; ma a mezzogiorno il mattino madreperlaceo è degenerato in pioggia, e Lo ha fatto una scenata.
È stato calcolato che a New York e a Chicago l'età media della pubescenza femminile è di tredici anni e nove mesi. Questa età può variare, da individuo a individuo, tra i dieci anni, o anche meno, e i diciassette. Quando Harry Edgar la possedette, Virginia non aveva ancora compiuto quattordici anni. Le dava lezioni di algebra. Je m'imagine cela. Trascorsero la luna di miele a Petersburg, Florida. «Monsieur Poepoe», come uno degli allievi parigini di Monsieur Humbert Humbert chiamava il poeta-poeta.
Stando agli specialisti di sessualità infantile, io ho tutte le caratteristiche atte a risvegliare una reciprocità nelle ragazzine: mascella squadrata, mano muscolosa, voce profonda e sonora, spalle larghe. Inoltre, dicono che io somigli a non so più quale attore o cantante confidenziale per il quale Lo ha preso una cotta.
Martedì. Pioggia. Lago delle Piogge. Mamma a far compere. L., lo sapevo, era vicina. Grazie ad alcune furtive manovre, l'ho incontrata nella camera di sua madre. Si teneva l'occhio sinistro spalancato per toglierne un bruscolo. Vestito a quadretti. Per quanto io adori la sua bruna, inebriante fragranza, penso davvero che dovrebbe lavarsi i capelli, ogni tanto. Per un momento ci siamo trovati entrambi nel medesimo, tiepido, verde bagno dello specchio, che rifletteva nel cielo, insieme a noi due, la sommità d'un pioppo. L'ho presa bruscamente per le spalle, poi teneramente per le tempie, girandola verso di me. «È qui,» ha detto «lo sento». «Una contadina svizzera userebbe la punta della lingua». «Per leccarlo via?». «Thì. Poth-tho provare io?». «Okay». Ho premuto con delicatezza il mio palpitante pungiglione sul globo salso e roteante. «Viva!» ha detto lei, sbattendo le palpebre. «È uscito davvero!». «Adesso l'altro». «Scemo,» ha cominciato «non c'è nie...», ma a questo punto ha notato le mie labbra protese. «Okay» ha detto in tono accomodante, e il tetro Humbert, chinandosi verso il viso caldo e arrossato rivolto all'insù, ha premuto la bocca contro la palpebra tremula. L. ha riso e, sfiorandomi, è uscita dalla stanza. Subito m'è parso di avere il cuore dappertutto. Mai nella mia vita... neanche quando accarezzavo il mio amore bambino in Francia... mai...
Notte. Mai sperimentato un simile supplizio. Vorrei descrivere il suo viso, il suo modo di fare... e non posso, perché quando è vicina il desiderio acceca. Non sono abituato alla presenza delle ninfette, dannazione. Se chiudo gli occhi vedo di lei soltanto una frazione immobilizzata, l'inquadratura pubblicitaria di un film, il lampo di un'avvenenza levigata e occulta mentre, seduta, si allaccia una scarpa con il ginocchio alzato sotto la gonna scozzese. «Dolores Haze, ne montrez pas vos zhambes» (questa è sua madre, che crede di sapere il francese).
Poeta à mes heures, ho composto un madrigale per le ciglia nere come fuliggine di quegli occhi vuoti d'un grigio pallido, per le cinque lentiggini asimmetriche di quel nasino all'insù, per la peluria bionda delle sue membra brune; ma l'ho stracciato, e oggi non riesco a ricordarlo. Solo coi termini più triti (riprendo il diario) riesco a descrivere i tratti di Lo: potrei dire che ha i capelli di un castano ramato, e le labbra rosse come una caramella rossa leccata – quello inferiore graziosamente tumido... oh, se fossi una scrittrice e potessi farla posare nuda in una nuda luce! E invece sono l'alto, magro, dinoccolato Humbert Humbert, con il torace villoso, le folte sopracciglia nere e il suo strano accento, e una cloaca di mostri putrescenti dietro il lento sorriso da ragazzo. Nemmeno lei, del resto, è la fragile fanciulla dei romanzi rosa. Quello che mi fa impazzire è la natura doppia di questa ninfetta – di ogni ninfetta, forse; questo miscuglio, nella mia Lolita, di un'infantilità tenera e sognante e di una sorta di raccapricciante volgarità, che discende dalle stucchevoli fotomodelle della pubblicità e delle riviste, coi loro nasetti sbarazzini; dal colorito roseo e vago delle servette adolescenti della vecchia Europa (odorose di margherite schiacciate e sudore); e dalle giovanissime sgualdrine travestite da bambine nei bordelli di provincia; e ancora, tutto questo si confonde con la squisita, immacolata tenerezza che filtra attraverso il muschio e la mota, la sozzura e la morte, oh Dio, oh Dio! E la cosa più singolare è che lei, questa Lolita, la mia Lolita, ha personificato l'antica brama di chi scrive, così che sopra tutto c'è... Lolita.
Mercoledì. «Allora, convinca la mamma a portarci al lago, domani». Queste le testuali parole pronunciate con un voluttuoso bisbiglio dalla mia fiamma dodicenne quando ci siamo scontrati sulla veranda, io diretto in casa, lei fuori. Il riflesso del sole pomeridiano, un corrusco diamante bianco dagli innumerevoli aculei iridescenti, tremolò sul baule tondeggiante di una macchina in sosta. Il fogliame di un olmo voluminoso disegnava le proprie ombre pastose sul muro rivestito di assi. Due pioppi oscillanti tremolavano. Si percepivano i suoni informi del traffico lontano; una bambina chiamava «Nancy! Nan-cy!». In casa Lolita ascoltava il suo disco preferito, Piccola Carmen, che io chiamavo Carmen-sitter.
Giovedì. Ieri sera eravamo sulla loggia, la Haze, Lolita e io. Il crepuscolo tiepido si era stemperato in un'amorosa oscurità. La tardona aveva finito di raccontare con gran profusione di particolari la trama di un film che lei e L. avevano visto quell'inverno. Il pugile era caduto molto in basso, ma poi aveva incontrato il buon vecchio prete (che nella sua gagliarda gioventù era stato a sua volta pugile, e sapeva ancora darle di santa ragione ai peccatori). Eravamo seduti per terra su un mucchio di cuscini, e L. stava tra quell'altra e me (si era insinuata fra noi, il tesorino). A mia volta mi sono lanciato in un esilarante resoconto delle mie avventure artiche. La musa dell'invenzione mi ha allungato un fucile, col quale ho sparato a un orso bianco che si è messo a sedere e ha detto: «Ah!». Intanto percepivo acutamente la vicinanza di L.; parlando e gesticolando in quel buio misericordioso ho approfittato di uno dei miei moti invisibili per toccarle la mano, la spalla e una ballerinetta di lana e tulle con cui giocava continuando a ficcarmela in grembo; e infine, dopo aver completamente irretito il mio ardente tesoro in quella trama di carezze eteree, ho osato sfiorarle la gamba nuda sulla lanugine d'uva spina dello stinco, e ridevo delle mie battute, e tremavo, e celavo i miei tremori, e un paio di volte ho sentito con labbra fuggevoli il tepore dei suoi capelli e, carezzando il suo giocattolo, le ho sussurrato un rapido, scherzoso «a parte» strofinando il naso sulla sua pelle. Anche lei si è agitata parecchio, tanto che alla fine sua madre le ha detto bruscamente di smetterla e ha lanciato la bambola nel buio, e io ho riso al di sopra delle gambe di Lo, e mi sono rivolto alla Haze per potermi avventurare con la mano su per l'esile schiena della mia ninfetta e tastarle la pelle attraverso la camicia da ragazzo.
Ma sapevo che non c'era speranza; ero così torturato dalla bramosia, così penosamente compresso dai vestiti, che mi sono sentito quasi sollevato quando la voce calma di sua madre ha annunciato nel buio: «E ora tutti pensiamo proprio che Lo dovrebbe andare a letto». «Io penso proprio che fai schifo» ha detto Lo. «Vuol dire che domani niente picnic» ha ribattuto la Haze. «Siamo in un paese libero» ha continuato Lolita. Quindi, arrabbiatissima, se n'è andata con una pernacchia, e io sono rimasto per pura forza di inerzia mentre la Haze fumava la decima sigaretta della serata e si lamentava di Lo.
Già a un anno, sa, era una bambina dispettosa, gettava i giocattoli fuori dal lettino, la carognetta, e la sua povera mamma doveva continuare a raccoglierli! Adesso, a dodici anni, era una vera peste, ha continuato. L'unica cosa che voleva dalla vita era dimenarsi a ritmo di boogie-woogie o esibirsi roteando un bastone da majorette. Prendeva brutti voti, ma qui si era adattata meglio che a Pisky (Pisky era la città natale degli Haze nel Middle West. Lei aveva ereditato la casa di Ramsdale da sua suocera, e ci si erano trasferite meno di due anni prima). «Perché non stava bene, là?». «Oh, guardi, ci sono passata anch'io, povera me, quando ero piccola! I ragazzi ti torcono un braccio, ti vengono apposta addosso con una pila di libri, ti tirano i capelli, ti schiacciano il seno, ti alzano la sottana. È vero, tutti gli adolescenti hanno dei momenti di cattivo umore, è un fatto concomitante dell'età dello sviluppo, ma Lo esagera. È musona e sfuggente. Screanzata e ribelle. Ha ficcato una penna stilografica nel didietro di Viola, una sua compagna italiana. Sa cosa mi piacerebbe? Se lei, Monsieur, fosse ancora qui quest'autunno, le chiederei di aiutarla a fare i compiti... Lei sembra saper tutto, la geografia, la matematica, il francese...». «Oh, tutto» ha risposto Monsieur. «Allora» ha aggiunto in fretta la Haze «vuol dire che resterà!». Avevo voglia di urlare che sarei rimasto in eterno, se solo avessi avuto la speranza di accarezzare ogni tanto la mia neoallieva. Ma diffidavo della Haze; così mi sono limitato a bofonchiare qualcosa, e poi, stiracchiandomi in modo non concomitante (le mot juste), mi sono ritirato in camera mia. La donna, però, non era evidentemente disposta a considerare conclusa la giornata. Ero già adagiato sul mio freddo letto, le mani che mi premevano sul viso il fragrante fantasma di Lolita, quando ho udito la mia instancabile padrona di casa che si avvicinava furtiva alla mia porta – solo per informarsi, ha detto in un sussurro, se avevo finito la rivista scandalistica che mi aveva prestato l'altro giorno. Dalla sua stanza Lo ha strillato che l'aveva presa lei. Questa casa è proprio una biblioteca circolante, fulmini divini!
Venerdì. Mi chiedo che cosa direbbero i miei editori accademici se citassi nel mio testo «la vermeillette fente» di Ronsard, o «un petit mont feutré de momse délicate, tracé sur le milieu d'un fillet escarlatte» di Remy Belleau, e così via. Se resto ancora in questa casa avrò probabilmente un altro esaurimento nervoso – lo sforzo di questa tentazione intollerabile accanto al mio tesoro... mio tesoro... mia vita e mia sposa. Chissà se madre natura l'ha già iniziata al Mistero del Menarca? Senso di gonfiore. È arrivato il marchese. Le cose. Piove in casa. «Il signor Utero (cito da una rivista per ragazzine) comincia a costruire una parete spessa e soffice, nell'eventualità che debba fare da culla a un bambino». Il minuscolo pazzo nella cella imbottita.
A proposito: se mai commettessi un assassinio serio... Notate il «se». Lo stimolo dovrebbe essere qualcosa di più di quello che mi successe con Valeria. Notate scrupolosamente che allora ero piuttosto inetto. Se mai vorrete farmi sfrigolare a morte su quella sedia, ricordate che solo un accesso di follia potrebbe darmi l'energia elementare per diventare un bruto (intero passaggio forse rimaneggiato). A volte, nei miei sogni, cerco di uccidere. Ma sapete che cosa succede? Per esempio ho in mano una pistola. Per esempio miro a un nemico mite, a cui le mie azioni interessano fino a un certo punto. Oh sì, premo il grilletto, ma dalla bocca imbarazzata della mia arma le pallottole cadono fiaccamente a terra. In quei sogni la mia unica preoccupazione è nascondere il mio fiasco al nemico, che comincia lentamente a seccarsi.
Stasera a cena la serpe mi ha detto, indirizzando a Lo uno sguardo in tralice scintillante di scherno materno (avevo appena descritto, in tono scherzoso, i deliziosi baffetti a spazzolino che non mi ero ancora deciso a farmi crescere): «Meglio di no, se non vogliamo che qualcuno perda completamente la testolina!». Subito Lo ha spinto da parte il suo pesce bollito, quasi rovesciando il bicchiere di latte, e si è precipitata fuori dalla stanza. «La annoierebbe molto» ha soggiunto la Haze «venire domani a fare una nuotata nel lago, se Lo chiederà scusa per le sue maniere?».
Più tardi ho sentito, dagli antri frementi in cui le due rivali si stavano accapigliando, un gran sbattere di porte e altri suoni.
Non ha chiesto scusa. Niente lago. Poteva essere divertente.
Sabato. Già da qualche giorno, quando scrivo in camera mia, lascio la porta socchiusa; ma soltanto oggi la trappola ha funzionato. Più irrequieta del solito, ciabattando e strascicando i piedi – per nascondere l'imbarazzo di essere entrata senza invito –, Lo è entrata e dopo aver ciondolato un po' per la stanza si è interessata ai ghirigori da incubo che con la penna avevo tracciato su un foglio. Oh no: non erano frutto della pausa ispirata di uno scrittore tra un paragrafo e l'altro; erano gli abominevoli geroglifici (che lei non poteva decifrare) della mia fatale lussuria. Mentre Lo chinava i riccioli castani sulla scrivania a cui ero seduto, Humbert il Rauco l'ha cinta con un braccio nella patetica imitazione di una familiarità tra consanguinei; e la mia innocente, piccola visitatrice, continuando a studiare con sguardo miope il foglio che aveva in mano, si è calata lentamente sul mio ginocchio in una posizione semiseduta. Il suo profilo adorabile, le labbra dischiuse, i tiepidi capelli erano a una decina di centimetri dal mio canino scoperto; e attraverso i ruvidi vestiti da ragazzaccio ho sentito il calore delle sue membra. D'un tratto mi sono reso conto che potevo baciarle la gola o l'angolo della bocca con assoluta impunità. Sapevo che mi avrebbe lasciato fare, magari chiudendo gli occhi, come insegna Hollywood. Un doppio gelato di vaniglia col cioccolato caldo... appena più insolito di quello. Non so dire al mio dotto lettore (le sopracciglia, sospetto, gli saranno ormai arrivate sul retro del cranio calvo), non so dirgli come me ne sia reso conto; forse il mio orecchio di scimmione aveva colto inconsapevolmente un lieve cambiamento nel ritmo del suo respiro – perché adesso non stava davvero guardando i miei scarabocchi, ma aspettava con curiosità e compostezza (oh, la mia limpida ninfetta!) che il fascinoso pensionante facesse quello che moriva dalla voglia di fare. Una bambina moderna, avida lettrice di riviste di cinema, esperta di primi piani lenti come sogni, non avrebbe trovato troppo strano, pensavo, che un amico adulto, prestante e intensamente virile... troppo tardi. La voce della garrula Louise ha fatto vibrare la casa; raccontava alla Haze, or ora rincasata, di non so quale bestiola morta che lei e Leslie Tomson avevano trovato in cantina, e per nulla al mondo la piccola Lolita si sarebbe persa una simile chicca.
Domenica. Volubile, scorbutica, allegra, goffa, aggraziata – la grazia agra della sua prima adolescenza di puledra –, tormentosamente desiderabile dalla testa ai piedi (tutto il New England per la penna di una scrittrice donna!), dal fiocco nero confezionato alle mollette che le tengono a posto i capelli, alla piccola cicatrice sul polpaccio armonioso (in basso, dove a Pisky un ragazzo coi pattini a rotelle le ha dato un calcio), cinque centimetri sopra i ruvidi calzini bianchi. È andata con sua madre dagli Hamilton una festa di compleanno, o qualcosa del genere. Vestito di percalle, gonna ampia. Le sue colombelle sembrano già ben formate. Tesorino precoce!
Lunedì. Mattino di pioggia. «Ces matins gris si doux...». Il mio pigiama bianco ha un fregio lilla sul dorso. Sono come uno di quei ragni pallidi e gonfi che si vedono nei giardini antichi: insediati nel mezzo di una tela luccicante, danno piccoli strattoni a questo o quel filo. Mentre sto seduto come un mago scaltro sulla mia sedia, aguzzando l'orecchio, la mia ragnatela è tesa su tutta la casa. È in camera sua, Lo? Delicatamente tiro la mia seta. Non c'è. Ho appena sentito lo staccato intermittente del rullo della carta igienica; e la mia antenna non ha percepito nessun passo dal bagno alla sua stanza. Si starà lavando i denti (l'unico atto sanitario cui Lo si dedichi con autentico entusiasmo)? No. La porta del bagno si è appena chiusa con un tonfo; bisogna captare altrove la presenza della bella preda dai caldi colori. Facciamo scendere un filo di seta giù per le scale. In questo modo mi persuado che non è in cucina – la porta del frigo non sbatte, nessuno strillo rivolto all'aborrita mammina (che, immagino, è impegnata nella terza telefonata del mattino, tutta cinguettii e risatine trattenute). Ebbene, tastiamo, speriamo ancora. Come un raggio di luce m'insinuo col pensiero nel salotto e trovo la radio zitta (e mamma che continua a parlare sottovoce con la Chatfield o la Hamilton, tutta sorrisi e guance di porpora; fa coppa sul microfono con la mano libera, nega tacitamente di negare quei divertenti pettegolezzi e paroline e pensierini sul pensionante, bisbiglia in tono confidenziale come non fa mai, la distinta signora, parlando vis-à-vis). Ma allora la mia ninfetta non è proprio in casa! Se n'è andata! Quella che credevo una trama iridescente si rivela null'altro che una vecchia ragnatela polverosa; la casa è vuota, è morta. Ed ecco, attraverso la mia porta socchiusa, la tenera, sommessa risatina di Lolita: «Non lo dica alla mamma, ma le ho mangiato tutta la pancetta!». Quando mi precipito fuori dalla stanza è già scomparsa. Lolita, dove sei? Il vassoio della colazione, amorosamente preparato dalla padrona di casa, mi rivolge un ghigno sdentato, pronto a esser portato in camera. Lola, Lolita!
Martedì. Di nuovo le nuvole hanno posticipato il picnic su quell'irraggiungibile lago. Sarà il Fato che ci mette lo zampino? Ieri mi sono provato un costume da bagno nuovo davanti allo specchio.
Mercoledì. Nel pomeriggio la Haze (scarpe comode, abito di sartoria) ha detto che andava in centro a comprare un regalo per l'amica di un'amica; chissà se sarei stato così gentile da accompagnarla, visto che avevo tanto gusto in fatto di tessuti e profumi? «Scelga la sua seduzione preferita» tubò. Che cosa mai poteva rispondere Humbert, lavorando nel ramo dei profumi? Mi aveva incastrato tra la veranda e l'automobile. «Su, presto!» ha detto mentre piegavo faticosamente in due il mio corpo ingombrante per infilarmi in macchina (continuando a cercare disperatamente una via di scampo). Aveva messo in moto e lanciava una serie di eufemistiche imprecazioni verso un furgone che svoltava a marcia indietro – dopo aver consegnato alla signorina Dirimpetto, invalida vecchietta, una sedia a rotelle nuova di zecca –, quando dalla finestra del salotto è arrivata la voce stridente della mia Lolita: «Ehi! Dove state andando? Vengo anch'io! Aspettate!». «La ignori!» ha guaito la Haze (lasciando spegnere il motore); ma, purtroppo per la mia leggiadra autista, Lo stava già tirando la portiera dalla mia parte. «È una cosa inammissibile!» ha detto la Haze, ma Lo, con un fremito di trionfo, si era già intrufolata dentro. «Muova il didietro, lei!» ha detto Lo. «Lo!» ha strillato la Haze (guardandomi di sbieco, nella speranza che buttassi fuori la zoticona). «Col cavo-lo!» ha detto Lo (non era la prima volta), mentre come me dava uno scarto all'indietro e la macchina faceva un balzo in avanti. «È inammissibile» ha detto la Haze, mettendo con foga la seconda «che una bambina sia così maleducata! E così insistente! Quando sa di non essere desiderata. E ha bisogno di un bagno».
Le mie nocche premevano contro i blue jeans della bambina. Era scalza; sulle unghie aveva rimasugli di uno smalto color ciliegia, e un brandello di cerotto sull'alluce; e Dio, che cosa non avrei dato per baciare immediatamente quei piedi dalle ossa sottili, dalle dita lunghe, quei piedi da scimmietta! D'un tratto la mano di Lo scivolò nella mia, e all'insaputa del nostro chaperon io strinsi e accarezzai e avvinghiai quella zampetta ardente per tutto il tragitto. Le pinne del naso marleniforme della guidatrice erano lucide, avendo perduto o consumato la loro razione di cipria, e lei proseguiva un suo elegante monologo a proposito del traffico locale, e sorrideva di profilo, e sporgeva le labbra di profilo, e sbatteva le palpebre bistrate di profilo, mentre io pregavo Dio di non arrivare mai a quel negozio; ma ci siamo arrivati. Non ho nient'altro da riferire, se non, primo: al ritorno la Haze grande ha fatto sedere la Haze piccola sul sedile posteriore; e secondo: la signora ha deciso di riservare Choix d'Humbert ai lobi delle proprie orecchie armoniose.
Giovedì. Scontiamo con grandinate e venti di tempesta l'inizio tropicale del mese. In un volume dell'Enciclopedia dei ragazzi ho trovato una cartina degli Stati Uniti che una matita infantile aveva cominciato a ricalcare su un foglio di carta leggera; sul rovescio, contro il profilo interrotto della Florida e del Golfo, c'era un elenco ciclostilato di nomi, evidentemente quelli dei suoi compagni alla scuola di Ramsdale. È una poesia che so già a memoria:
Angel, Grace
Austin, Floyd
Beale, Jack
Beale, Mary
Buck, Daniel
Byron, Marguerite
Campbell, Alice
Carmine, Rose
Chatfield, Phyllis
Clarke, Gordon
Cowan, John
Cowan, Marion
Duncan, Walter
Falter, Ted
Fantasia, Stella
Flashman, Irving
Fox, George
Glave, Mabel
Goodale, Donald
Green, Lucinda
Hamilton, Mary Rose
Haze, Dolores
Honeck, Rosaline
Knight, Kenneth
McCoo, Virginia
McCrystal, Vivian
McFatum, Aubrey
Miranda, Anthony
Miranda, Viola
Rosato, Emil
Schlenker, Lena
Scott, Donald
Sheridan, Agnes
Sherva, Oleg
Smith, Hazel
Talbot, Edgar
Talbot, Edwin
Wain, Lull
Williams, Ralph
Windmuller, Louise
Una poesia, una poesia, in verità! È stato così strano, così dolce scoprire quello «Haze, Dolores» (lei!) nella sua speciale nicchia di nomi, con la guardia del corpo di rose – una principessina da fiaba tra le due damigelle d'onore. Sto cercando di analizzare il brivido di piacere che percorre la mia spina dorsale alla vista di questo nome in mezzo a tutti gli altri. Che cos'è che mi eccita sin quasi alle lacrime (le calde, opalescenti, dense lacrime versate dai poeti e dagli innamorati)? Che cos'è? Il tenero anonimato di questo nome con il suo velo formale («Dolores») e l'astratta inversione di nome e cognome, simile a un paio di pallidi guanti nuovi, o a una maschera? È «maschera» la parola chiave? È perché c'è sempre della voluttà nel mistero semitrasparente, nel fluente chador attraverso il quale la carne e l'occhio che tu solo sei eletto a conoscere sorridono, al passaggio, soltanto a te? Oppure è perché riesco a figurarmi così bene il resto di quella colorita scolaresca intorno alla mia rosa dolorosa: Grace e i suoi brufoli maturi; Ginny con la gamba strascicata; Gordon, lo smunto masturbatore; Duncan, il buffone puzzolente; Agnes, che si mangia le unghie; Viola, la bruna dal seno ballonzolante; la graziosa Rosaline; la scura Mary Rose; l'adorabile Stella, che si è lasciata toccare dagli sconosciuti; Ralph, che è prepotente e ruba; Irving, che mi fa pena come ogni escluso. E lei perduta in mezzo a loro, detestata dagli insegnanti, rosicchia una matita, tutti gli occhi dei ragazzi sui capelli e sul collo, la mia Lolita.
Venerdì. Agogno un terrificante cataclisma. Un terremoto. Un'esplosione spettacolare. Sua madre viene eliminata in modo antiestetico, ma istantaneo e definitivo, e con lei ogni essere umano in un raggio di molte miglia. Lolita piagnucola tra le mie braccia. Libero, godo di lei tra le rovine. La sua sorpresa, i miei enunciati, i miei attestati, i miei ululati. Che fantasie oziose e idiote! Un Humbert coraggioso si sarebbe trastullato con lei nel modo più ignobile (ieri, per esempio, quando è tornata in camera mia per mostrarmi i suoi disegni, campionario scolastico); avrebbe potuto comprarla – e farla franca. Un tipo più semplice e più pratico si sarebbe con buon senso attenuto a vari surrogati commerciali – ma se voi sapete dove andare, io non lo so. Nonostante il mio aspetto virile, sono tremendamente timido. La mia anima romantica trema e suda freddo al pensiero di imbattersi in qualche atroce, sconcio contrattempo. Ricordo quegli scurrili mostri marini: «Mais allez-y, allez-y!». Annabel che saltella su un piede solo per infilarsi i calzoncini, io che cerco di farle schermo, la rabbia mi dà il mal di mare.
Stessa data, più tardi, molto tardi. Ho acceso la luce per annotare un sogno. Aveva un chiaro antecedente: a cena la Haze aveva dichiarato benevola che, essendo le previsioni per il weekend ottime, domenica, dopo la funzione, saremmo andati al lago. Mentre ero a letto, assorto in erotiche fantasticherie prima di cercare di addormentarmi, ho escogitato un piano decisivo per trarre profitto da quel picnic. Mi rendevo ben conto che mamma Haze odiava il mio tesoro perché si era preso una cotta per me, così ho architettato la mia giornata al lago in modo da far contenta la madre. Avrei parlato con lei e solo con lei; ma al momento adatto, con la scusa di aver dimenticato l'orologio o gli occhiali da sole nella radura lì accanto, mi sarei inoltrato nel bosco con la mia ninfetta. A questo punto la realtà s'è fatta da parte, e la Ricerca degli Occhiali s'è tramutata in una piccola, tranquilla orgia con una Lolita singolarmente esperta, gaia, corrotta e accomodante, che si comportava come la mia ragione sapeva bene non si sarebbe mai potuta comportare. Alle tre ho ingoiato un sonnifero, e presto un sogno che non era un seguito ma una parodia mi ha rivelato, con una sorta di pregnante nitore, il lago che non avevo ancora visto: era glassato da uno strato di ghiaccio color smeraldo, e un esquimese butterato stava cercando invano di spaccarlo con una piccozza, benché sulle rive ghiaiose fiorissero mimose e oleandri d'importazione. Sono certo che la dottoressa Blanche Schwarzmann mi avrebbe pagato con un intero sacco di scellini un simile bocconcino per il suo libidossier. Purtroppo il resto del sogno era francamente eclettico. La Haze grande e la Haze piccola cavalcavano intorno al lago, e anch'io con loro, muovendomi doverosamente su e giù, le gambe arcuate anche se in mezzo non c'era nessun cavallo, solo aria elastica... una di quelle piccole omissioni dovute alla distrazione del fornitore di sogni.
Sabato. Il cuore mi balza ancora in petto. Mi torco ed emetto gemiti sommessi di imbarazzo retrospettivo.
Veduta dorsale. Una striscia di pelle luminosa tra la maglietta e i calzoncini bianchi da ginnastica. Piegata sul davanzale, Lo strappava qualche foglia da un pioppo mentre era assorta in una torrenziale chiacchierata col ragazzo dei giornali (Kenneth Knight, sospetto), che aveva appena proiettato il «Journal» di Ramsdale sulla veranda con un tonfo molto preciso. Ho cominciato ad avanzare furtivo verso di lei – mediante «reptazione», come dicono i mimi. Braccia e gambe erano superfici convesse tra le quali – più che sulle quali – avanzavo lentamente grazie a non so quale neutro mezzo di locomozione: Humbert il Ragno Ferito. Devo averci messo delle ore per raggiungerla. Mi sembrava di guardarla dall'estremità sbagliata di un telescopio, e mi muovevo in direzione delle sue sode piccole terga come un paralitico, su arti molli e storti, assorto in una concentrazione terribile. Alla fine mi sono trovato proprio dietro di lei, ma ho avuto la sciagurata idea di strafare un po' – le ho dato uno scrollone afferrandola per la nuca, e così via, per coprire il mio vero manège, e lei è sbottata in un breve strepito lamentoso: «Ma la pianti!», col suo tono più rozzo, la villanzona, e Humbert l'Umile, con un ghigno grottesco, ha battuto tristemente in ritirata mentre lei continuava a lanciare battutine in direzione della strada.
Ma ora sentite quel che è successo poi. Dopo pranzo cercavo di leggere su una sedia a sdraio. D'un tratto due svelte manine mi hanno coperto gli occhi: mi era arrivata alle spalle, come reinscenando, in una sequenza di balletto, la mia manovra mattutina. Mentre cercavano di cancellare il sole le sue dita erano porpora traslucida, e lei faceva convulse risatine e scattava di qua e di là, e intanto io tendevo il braccio di lato e all'indietro senza altrimenti cambiare la mia posizione riversa. Con la mano ho sfiorato le sue gambe agili e ridenti, e il libro mi è scivolato giù dal grembo come una slitta, ed è arrivata la Haze che ha detto con indulgenza: «Le dia pure una bella sberla, se disturba le sue meditazioni erudite. Come amo questo giardino [nessun punto esclamativo nel suo tono]. Non è divino al sole [neanche l'interrogativo]». E con un sospiro di finta beatitudine l'importuna signora s'è calata sull'erba e, appoggiandosi sulle mani dalle dita divaricate, ha guardato il cielo; poco dopo una vecchia palla da tennis grigia è rimbalzata sorvolando il suo corpo, e dalla casa è giunta la voce sdegnosa di Lo: «Pardonnez, mamma. Non è te che volevo colpire». Ma certo che no, mio caldo amore lanuginoso.
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