16


Il cavo della mia mano era colmo dell'avorio di Lolita, sentiva ancora l'incurvatura della sua schiena pubescente – lo slittante avorio levigato della sua pelle attraverso il vestitino leggero che avevo mosso su e giù mentre la stringevo a me. Andai con passo fermo nella sua stanza messa a soqquadro, spalancai l'anta dell'armadio e mi immersi in un mucchio di indumenti sgualciti che l'avevano toccata. C'era in particolare una cosetta rosa, lacera, stropicciata, con un odore leggermente acre lungo la cucitura. Vi avvolsi l'immenso, congestionato cuore di Humbert. Un caos cocente ribolliva dentro di me – ma dovetti lasciar perdere quei panni e ricompormi in fretta, perché mi resi conto che la voce vellutata della domestica mi chiamava sommessamente dalle scale. Aveva un messaggio per me, disse; e, completando il mio automatico «grazie» con un garbato «non c'è di che», la buona Louise lasciò nella mia mano tremante una lettera non affrancata dall'aspetto stranamente lindo.

«Questa è una confessione: io ti amo [così cominciava la lettera, e per un attimo distorto scambiai quegli isterici sgorbi per gli scarabocchi di una scolaretta]. Domenica scorsa, in chiesa – cattivo, che non sei venuto a vedere le nostre splendide vetrate nuove! –, soltanto domenica, mio caro, quando ho chiesto al Signore cosa fare, mi è stato risposto di comportarmi come sto facendo adesso. Vedi, non ho scelta. Ti ho amato sin dal primo momento che ti ho visto. Sono una donna passionale e sola, e tu sei l'amore della mia vita.
«E ora, mio caro, carissimo, mon cher, cher monsieur, hai letto questa confessione; ora sai. Dunque, per piacere, fa' immediatamente le valigie e parti. Te lo ordina la tua padrona di casa. Sfratto il mio pensionante. Ti butto fuori. Via! Filare! Departez! Io sarò di ritorno all'ora di cena, se riuscirò a fare i centoventi all'andata e al ritorno senza andare a sbattere (ma che importanza avrebbe?), e non voglio trovarti in casa. Ti prego, ti prego, parti subito, immediatamente, non leggere neanche fino in fondo questo assurdo biglietto. Va' via. Addio.
«La situazione, chéri, è molto semplice. Naturalmente io so con assoluta certezza di non essere nulla per te, nulla di nulla. Oh, certo, ti piace parlare con me (e prendermi in giro, tapina che sono), ti sei affezionato alla nostra casa accogliente, ai libri che amo, al mio delizioso giardino, persino ai chiassosi modi di Lo... ma io, per te, non sono niente. Vero? Vero. Proprio niente. Ma, se dopo aver letto la mia "confessione" tu decidessi, in quel tuo modo tenebroso da romantico europeo, che mi trovi abbastanza attraente per approfittare della mia lettera e farmi un'avance, allora saresti un criminale – peggio di un rapitore che stupra i bambini. Perché vedi, chéri, se tu decidessi di rimanere, se mai io dovessi trovarti ancora a casa (e so bene che non ti troverò – per questo posso continuare su questo tono), il fatto stesso che tu sia rimasto vorrebbe dire una cosa sola: che mi vuoi quanto ti voglio io: come compagna di tutta la vita; e che sei pronto a legare per sempre la tua vita alla mia e a fare da padre alla mia bambina.
«Lasciami delirare e divagare ancora un pochino, carissimo, tanto so che hai già stracciato questa lettera, e i suoi pezzi (illeggibili) saranno nel vortice della toilette. Mio caro, mon très, très cher, che mondo d'amore ho costruito per te in questo giugno miracoloso! So bene quanto sei riservato, quanto sei 'britannico'. La tua reticenza da vecchia Europa, il tuo senso del decoro forse sono rimasti scandalizzati dall'audacia di questa ragazza americana! Tu, che sai nascondere i sentimenti più intensi, penserai che sono una stupidella senza pudore per averti così spalancato il mio povero cuore ferito! Negli anni passati ho provato molte delusioni. Il signor Haze era una persona meravigliosa, un animo d'oro, ma purtroppo aveva vent'anni più di me e – be', niente pettegolezzi sul passato. Mio caro, se non hai dato ascolto alla mia richiesta e sei arrivato sino all'amara conclusione di questa lettera, la tua curiosità sarà ben soddisfatta. Ma non preoccuparti: distruggila e va'. Non dimenticare di lasciare la chiave sulla scrivania della tua stanza. E uno straccio di indirizzo, così che io possa rimborsarti i dodici dollari che hai già pagato sino alla fine del mese. Addio, mio caro. Prega per me, se qualche volta preghi.
C.H.».

Ho qui riportato ciò che ricordo di quella lettera, e ciò che ricordo lo ricordo parola per parola (compreso quell'atroce francese). Era lunga almeno il doppio. Ho tralasciato un passaggio lirico che al momento avevo più o meno saltato; vi si parlava del fratellino di Lolita, morto a due anni quando lei ne aveva quattro, e di quanto gli avrei voluto bene. Vediamo, che altro potrei dire? Ah, ecco. C'è la possibilità che il «vortice della toilette» (dove la lettera andò effettivamente a finire) sia un mio prosaico contributo. Lei probabilmente mi supplicava di bruciare la sua epistola in un fuoco acceso all'uopo.
La mia prima reazione fu di ripulsa e di fuga. La seconda fu come la mano serena di un amico che, posandosi sulla mia spalla, mi esortasse a prendere tempo. Così feci. Emersi dal mio stordito torpore e mi resi conto che mi trovavo ancora nella camera di Lo. Al muro, sopra il letto, attaccata tra il muso di un cantante confidenziale e le ciglia di un'attrice cinematografica, c'era una réclame a piena pagina strappata da una rivista patinata. Rappresentava un giovane marito bruno, con un'espressione vagamente estenuata negli occhi irlandesi. Indossava una vestaglia di Tal dei Tali e reggeva un vassoio a ponte di Vattelapesca, con sopra la colazione per due. La didascalia, una citazione del Reverendo Thomas Morell, lo definiva un «eroe sgominatore». La signora sgominata (fuori quadro) si stava presumibilmente accomodando sui cuscini per ricevere la sua metà del vassoio. Come sarebbe riuscito il suo compagno di letto a infilarsi sotto il ponte senza far disastri non era chiaro. Lolita aveva tracciato una scherzosa freccetta in direzione del volto di quell'amante spossato, e in stampatello aveva scritto: H.H. E in effetti, nonostante qualche anno di differenza, la somiglianza era impressionante. Sotto c'era un'altra fotografia, sempre una pubblicità a colori. Un illustre commediografo fumava solennemente una Dromedary. Lui fumava sempre Dromedary. La somiglianza era lieve. Sotto ancora c'era il casto letto di Lo, disseminato di fumetti. Lo smalto della testiera era scrostato, e sul bianco affiorava una serie di macchie nere più o meno tondeggianti. Dopo essermi assicurato che Louise se n'era andata mi infilai nel letto di Lo e rilessi la lettera.

15



Il giorno dopo andarono in città a comprare il necessario per la colonia: su Lo ogni acquisto di guardaroba sortiva effetti miracolosi. A cena sembrava aver ripreso i suoi modi sarcastici. Subito dopo salì in camera per immergersi nei giornali a fumetti comprati per i giorni di pioggia al Camp Q (entro giovedì li aveva sfogliati in modo così esauriente che li lasciò a casa). Anch'io mi ritirai nella mia tana e scrissi alcune lettere. Adesso il mio piano era di partire per il mare e poi, all'inizio della scuola, riprendere la mia vita in casa Haze; sapevo già, infatti, di non poter vivere senza quella bambina. Il martedì andarono di nuovo a far spese e mi fu chiesto di rispondere al telefono, nel caso avesse chiamato in loro assenza la direttrice della colonia. La signora chiamò, e un mesetto più tardi avemmo modo di rammentare la nostra piacevole chiacchierata. Quel martedì Lolita cenò in camera. Dopo uno degli abituali alterchi con sua madre s'era messa a piangere e, com’era già successo altre volte, non voleva che la vedessi con gli occhi gonfi: la sua era una di quelle carnagioni delicate che dopo un bel pianto si sfocano e s'infiammano, facendosi morbosamente allettanti. Mi rincrebbe moltissimo quella sua erronea idea del mio personale senso estetico, giacché io adoro, semplicemente, quella sfumatura di rosa botticelliano, quel rosa acceso intorno alle labbra, quelle ciglia umide e arruffate; e naturalmente la sua capricciosa ritrosia mi sottraeva molte opportunità di speciosa consolazione. Ma sotto c'era più di quanto io non pensassi. Mentre eravamo seduti al buio sulla veranda (un vento scostumato aveva spento le sue candele rosse) la Haze, con una risata poco allegra, mi annunciò di aver detto a Lo che il suo adorato Humbert approvava incondizionatamente tutta la faccenda della colonia «e allora» aggiunse «la bambina fa la sua scenata; pretesto: noi due vogliamo liberarci di lei; vero motivo: le ho detto che domani andremo a cambiare con qualcosa di più sobrio certe cosine da notte un po' troppo civettuole che mi ha costretto a comprarle di prepotenza. Lei capisce, si vede come una stellina del cinema; per me, invece, è una bambina sana e robusta, ma decisamente insignificante... C'è questo, credo, alla radice di tutti i nostri dissapori».
Mercoledì sono riuscito a sequestrare Lo per qualche secondo: era sul pianerottolo, con una felpa e un paio di calzoncini bianchi imbrattati di verde, e frugava in un baule. Dissi qualcosa che voleva essere amichevole e divertente, ma lei si limitò a stronfiare senza nemmeno guardarmi. Il disperato, agonizzante Humbert le diede un goffo colpetto sul coccige, e Lo gli batté addosso, facendogli piuttosto male, una delle forme da scarpe del defunto signor Haze. «Traditore!» mi disse mentre mi trascinavo giù per le scale, massaggiandomi il braccio con aria di grande contrizione. Non si degnò nemmeno di cenare con Hum e mamma: si lavò i capelli e andò a letto con i suoi ridicoli giornaletti. E giovedì la silenziosa Haze l'accompagnò in macchina al Camp Q.
Come si sono espressi autori più illustri di me: «Lascerò alla fantasia del lettore, ecc.». Ma a pensarci bene, al diavolo le fantasie! Sapevo di essermi innamorato di Lolita per sempre; ma sapevo anche che lei non sarebbe stata per sempre Lolita. Il primo gennaio avrebbe compiuto tredici anni. Entro un paio d'anni avrebbe cessato di essere una ninfetta e si sarebbe trasformata in una «ragazza», e poi, orrore degli orrori, in una college-girl. La parola «per sempre» si riferiva solo alla mia intima passione, a quell'eterna Lolita che si rifletteva nel mio sangue. La Lolita dalle creste iliache non ancora dischiuse, la Lolita che oggi potevo toccare, e annusare, e udire, e vedere, la Lolita dalla voce stridula e dai capelli di un sontuoso castano, lisci sulla frangia, mossi ai lati del viso e ricci sulla nuca, e il collo caldo e appiccicoso, e il lessico volgare: «schifo», «super», «bestiale», «fesso», «moscio» – quella Lolita, la mia Lolita, il povero Catullo l'avrebbe perduta per sempre. Come avrei potuto sopportare di non vederla per due mesi di insonnie estive? Due interi mesi sottratti ai due anni della sua residua età ninfea! Avrei forse potuto assumere le sembianze della sgraziata Mlle Humbert, una ragazza cupa e all'antica, e montare la renda ai margini del Camp Q nella speranza che le sue rossicce ninfette invocassero: «Prendiamo con noi la senzatetto con la voce di petto!», e trascinassero davanti al loro rustico focolare la triste Berthe au grand pied dal timido sorriso. Berthe dormirà con Dolores Haze!
Sogni oziosi e asciutti. Due mesi di bellezza, due mesi di tenerezza sarebbero stati sprecati per sempre, e io non potevo farci nulla, ma proprio nulla, mais rien.
Tuttavia quel giovedì aveva in serbo per me, nella sua coppa di ghianda, una stilla di miele prelibato. La Haze doveva accompagnare Lo alla colonia nelle prime ore del mattino. Raggiunto da svariati suoni di partenza, rotolai giù dal letto e mi affacciai alla finestra. Sotto i pioppi la macchina già vibrava. Louise, sul marciapiede, si schermava gli occhi con la mano come se la piccola viaggiatrice fosse già in viaggio verso il basso sole mattutino. Quel gesto si dimostrò prematuro. «Sbrigati!» gridò la Haze. La mia Lolita, che era salita per metà e stava per sbattere la portiera, abbassare il finestrino e salutare con la mano Louise e i pioppi (non avrebbe visto mai più né l'una né gli altri), interruppe il corso del fato: guardò su... e si precipitò di nuovo in casa (mentre la Haze la chiamava concitatamente).
Dopo un istante sentii il mio tesoro che saliva le scale a precipizio. Il cuore mi si dilatò con tanta forza che per poco non mi annichilì. Mi tirai su i calzoni del pigiama e spalancai la porta: in quello stesso istante arrivò Lolita col suo vestitino della festa, ansimando, il passo pesante, e fu subito tra le mie braccia, la bocca innocente che si scioglieva sotto la feroce pressione di fosche mascelle maschili, mio tesoro palpitante! Un attimo dopo la udii – viva, inviolata – scendere rumorosamente le scale. Il fato riprese il suo corso. La gamba bionda si ritirò nella macchina, la portiera fu sbattuta una volta, poi una seconda, e con una violenta sterzata l'autista Haze, le labbra di gomma rossa torte in un flusso inaudibile di parole rabbiose, si portò via il mio tesoro mentre la vecchia, invalida signorina Dirimpetto, non vista da loro né da Louise, le salutava con gesto fievole ma cadenzato dalla sua veranda coperta d'edera.

14



Pranzai in città; erano anni che non avevo tanta fame. Quando tornai, senza fretta, nemmeno l'ombra di Lo. Trascorsi il pomeriggio a pensare, a tramare, a digerire beato la mia esperienza del mattino. Ero fiero di me. Avevo carpito il miele d'uno spasmo senza corrompere una minorenne. Niente di male, assolutamente niente di male. Il prestigiatore aveva versato latte, melassa e champagne spumeggiante nella bianca borsetta nuova di una damigella; e, miraco-lo!, la borsetta era intatta. Così avevo delicatamente architettato il mio sogno ignobile, ardente e peccaminoso; e tuttavia Lolita era al sicuro – come lo ero io. Ciò che avevo follemente posseduto non era lei, ma una creatura mia, una Lolita di fantasia forse ancor più reale di Lolita; qualcuno che le si sovrapponeva e l'inglobava; qualcuno che aleggiava tra lei e me, senza volontà né coscienza – anzi, senza nemmeno una vita propria.
La bambina non sapeva nulla. Io non le avevo fatto nulla. E nulla mi impediva di ripetere una prestazione che la toccava pochissimo, come se lei fosse un'immagine fotografica che fluttua su uno schermo e io l'umile gobbo intento all'onanismo nell'ombra. Il pomeriggio si trascinò a rilento in un silenzio maturo, e gli alti alberi saturi di linfa sembravano informati di tutto; il desiderio ricominciò ad affliggermi più forte di prima. Fa' che torni presto, pregai rivolgendomi a un Dio in prestito, fa' che mentre mamma è in cucina possa ripetersi la scena del sofà – ti supplico, l'adoro in un modo così orribile!
No, «orribile» non è la parola giusta. L'euforia che mi pervadeva al pensiero di nuove delizie non era orribile, ma patetica. Io la definisco patetica. Patetica... perché nonostante il fuoco insaziabile del mio appetito venereo avevo ogni intenzione di proteggere, con la più fervida determinazione e preveggenza, la purezza di quella bimba dodicenne.
E ora sentite come fui ricompensato. Non tornò a casa nessuna Lolita; era andata al cinema con i Chatfield. La tavola fu preparata con più eleganza del solito: lume di candela, pensate un po'. In quell'atmosfera sdolcinata la Haze sfiorò le posate d'argento ai due lati del suo piatto come fossero tasti di pianoforte, sorrise verso il piatto vuoto (era a dieta) e disse che sperava mi piacesse la sua insalata (ricetta presa da una rivista femminile). Sperava mi piacesse anche la carne fredda. Era stata una giornata perfetta. La Chatfield era una persona splendida. Phyllis, sua figlia, partiva l'indomani per la colonia estiva e ci sarebbe rimasta tre settimane. Lolita, era già deciso, l'avrebbe raggiunta giovedì. Invece di aspettare fino a luglio come s'era progettato in un primo momento. E si sarebbe fermata anche dopo la partenza di Phyllis. Fino all'inizio della scuola. Bella prospettiva, cuore mio.
Oh, che colpo! Questo non significava forse che stavo per perdere il mio tesoro proprio quando l'avevo segretamente fatto mio? Per spiegare il mio umor nero dovetti ricorrere allo stesso mal di denti già simulato al mattino. Doveva essere un molare enorme, con un ascesso grande come una visciola.
«Qui abbiamo un dentista eccellente» disse la Haze «È proprio un nostro vicino, il dottor Quilty. Zio o cugino, credo, del drammaturgo. Ah, pensa che le passerà? Bene, come vuole. In autunno gli farò "raddrizzare" Lo, come diceva mia madre. Chissà che non serva a tenerla un po' a freno. Ho paura che in tutti questi giorni l'abbia spaventosamente importunata. E avremo un paio di giornatine alquanto tempestose prima che parta, vedrà! Si è categoricamente rifiutata di andarci, alla colonia, e confesso di averla lasciata con i Chatfield perché avevo paura di affrontarla da sola. Forse il cinema la ammansirà. Phyllis è una carissima ragazzina, non c'è ragione al mondo perché Lo non debba trovarla simpatica. Mi creda, Monsieur, sono molto dispiaciuta per il suo dente. Sarebbe molto più ragionevole che domattina per prima cosa mi lasciasse contattare Ivor Quilty, se le farà ancora male. E poi, sa, io penso che la colonia estiva sia molto più sana, e... be', lo trovo molto più sensato, come dico, che starsene imbronciata sul prato di casa, mettersi il rossetto della mamma e molestare signori studiosi e timidi, e fare scenate al minimo pretesto!».
«È sicura» dissi alla fine «che là sarà felice?» (debole, deplorevolmente debole!).
«Vorrei vedere. E del resto non è che lì giochino soltanto. La colonia è diretta da Shirley Holmes – sa, quella che ha scritto Memorie di una giovane esploratrice. La colonia insegnerà a Dolores Haze a crescere in molti sensi – salute, conoscenze, autocontrollo. E soprattutto senso di responsabilità nei confronti degli altri. Vuole che prendiamo le candele e ci sediamo un po' nella loggia, o preferisce andare a letto e curarsi il mal di denti?».
Curarmi il mal di denti.

13

La domenica successiva al sabato già descritto c'era tutto il sole preannunciato dai meteorologi. Mentre posavo il vassoio della colazione sulla sedia accanto alla mia porta, in modo che la mia brava padrona potesse ritirarlo con suo comodo, origliando dalla balaustra del pianerottolo che avevo traversato silenzioso con le mie vecchie pantofole ai piedi – l'unica cosa vecchia che avessi – riuscii a ricostruire la seguente situazione.
Si erano di nuovo accapigliate. La signora Hamilton aveva telefonato che sua figlia «aveva un po' di temperatura». La signora Haze aveva informato la propria che bisognava rimandare il picnic. L'infiammata piccola Haze aveva informato la gelida grande Haze che allora non sarebbe andata in chiesa con lei. Benissimo, aveva detto la madre, ed era uscita.
Mi ero affacciato sul pianerottolo subito dopo essermi rasato, con i lobi insaponati e il pigiama bianco col motivo azzurro fiordaliso (non quello lilla) sul dorso; mi ripulii dal sapone, mi profumai i capelli e le ascelle, infilai una vestaglia di seta viola e, canterellando nervosamente tra me e me, scesi le scale in cerca di Lo.
Ora voglio che i miei dotti lettori partecipino alla scena che mi accingo a rappresentare di nuovo; voglio che la esaminino in ogni dettaglio e vedano coi loro occhi quanto prudente, quanto casto si riveli questo melato episodio a guardarlo con quella che il mio avvocato, nel corso di un nostro colloquio, ha chiamato «imparziale simpatia». Possiamo cominciare; ho davanti a me un arduo compito.
Personaggio principale: Humbert il Canterellante. Tempo: una domenica mattina di giugno. Luogo: un salotto baciato dal sole. Arredi: un vecchio sofà a strisce, riviste, grammofono, ninnoli messicani (il fu Harold E. Haze – Dio l'abbia in gloria – aveva generato il mio tesoro durante la siesta in una camera celeste; era in luna di miele a Vera Cruz, e i souvenir di quel viaggio, Dolores compresa, erano sparsi dappertutto). Quel giorno Lo indossava un grazioso vestito di cotone stampato che le avevo già visto una volta: gonna ampia, corpetto aderente, maniche corte, rosa, a quadretti d'un rosa più scuro. Per completare l'insieme cromatico s'era messa il rossetto, e teneva nelle mani a coppa una bellissima, banale mela rosso Eden. Niente scarpe della domenica, però, e la borsetta bianca giaceva abbandonata accanto al grammofono.
Il mio cuore cominciò a battere come un tamburo quando lei si sedette vicino a me sul sofà; la sottana leggera si gonfiò come un pallone per afflosciarsi di nuovo, e Lo si mise a giocare col suo frutto lucente. Lo lanciava nell'aria impolverata di sole, e poi lo afferrava – nelle sue mani faceva un convesso, levigato plop.
Humbert Humbert intercettò la mela.
«Me la renda» mi chiese in tono supplichevole, mostrandomi il marmoreo rossore delle palme. Tirai fuori la Delizia. Lei l'afferrò e la morse, e il mio cuore fu come neve sotto un'esile buccia vermiglia, e con l'agilità da scimmietta così tipica di quella ninfetta americana lei strappò dalla mia presa astratta la rivista che avevo aperto (peccato che nessuna pellicola abbia registrato il curioso arabesco, l'intreccio da monogramma delle nostre mosse simultanee e sovrapposte). In fretta, quasi per nulla intralciata dalla mela sfigurata che teneva in mano, Lo sfogliò con irruenza le pagine cercando qualcosa che voleva mostrare a Humbert. Alla fine lo trovò. Fingendomi interessato, avvicinai la testa al punto che i suoi capelli mi toccarono la tempia, e mentre si puliva le labbra con il polso Lo mi sfiorò la guancia col braccio. A causa della caligine luccicante attraverso la quale guardavo la foto la mia reazione fu lenta, e le ginocchia nude di Lo sfregarono e batterono impazienti l'una contro l'altra. Confusamente distinsi: un pittore surrealista che si rilassa, supino, su una spiaggia, e vicino a lui, anch'essa supina, una copia in gesso della Venere di Milo semisepolta nella sabbia. La Foto della Settimana, diceva la didascalia. Tolsi rapidamente di mezzo quella schifezza. Un attimo dopo, fingendo di volersela riprendere, Lolita si riversò tutta su di me. L'afferrai per il polso snello e ossuto. La rivista saltò sul pavimento come una gallina spaventata. Lolita si divincolò, si ritrasse e affondò nell'angolo destro del sofà. Quindi, con perfetta semplicità, la piccola impudente allungò le gambe sul mio grembo.
A questo punto ero in uno stato di eccitazione che sconfinava nella follia; ma dei folli avevo anche l'astuzia. Restando seduto riuscii ad accordare, grazie a una serie di movimenti furtivi, la mia dissimulata lussuria con le sue membra ingenue. Non fu facile distrarre la pulzella mentre eseguivo gli oscuri assestamenti necessari al successo del mio numero. Parlavo in fretta, lasciandomi sorpassare dal mio fiato; lo raggiungevo di nuovo, mimando un improvviso mal di denti per spiegare le interruzioni nel mio cicaleccio; e fissando senza posa il mio occhio interiore di maniaco sulla distante meta dorata, intensificavo cautamente la magica frizione che via via eliminava – in un senso illusorio, se non concreto – il tessuto fisicamente inamovibile, ma psicologicamente friabilissimo della barriera materiale (pigiama, vestaglia) che si frapponeva tra il peso di due gambe scottate dal sole, di traverso sul mio grembo, e il recondito tumore di una passione innominabile. Poiché nel corso delle mie chiacchiere ero incappato in qualcosa di piacevolmente meccanico, recitai, storpiandole appena, le parole di una sciocca canzonetta che andava di moda allora – O Carmen, mia piccola Carmen, lalalà, e le notti stellate, stellalà, e le auto, e i bar, e i barmen; continuavo a ripetere questa automatica tiritera e a tener Lo sotto il suo speciale incantesimo (grazie alle parole storpiate), sempre col mortale terrore che un atto divino potesse interrompermi, potesse rimuovere quel dorato fardello proprio quando tutto il mio essere era concentrato nell'unico sforzo di percepirlo; quell'ansia mi indusse a procedere, per un paio di minuti, più in fretta di quanto fosse consono a un godimento volutamente graduato. Dopo un po' le notti stellate, le auto, i bar, i barmen furono ripresi da Lo, la cui voce si impadronì, per correggerlo, del motivo da me deturpato. Era intonata e dolce come una mela. Le sue gambe palpitavano sul mio vivo grembo; io gliele accarezzavo, e lei, stravaccata nell'angolo destro, Lola dai calzini corti, divorava il suo frutto immemorabile, cantava attraverso il suo succo, perdeva la pantofola, strofinava il calcagno del piede senza pantofola, con il calzino mezzo scivolato via, contro la pila di vecchie riviste che avevo alla mia sinistra sul sofà; e ogni suo movimento, ogni strofinio, ogni ondeggiamento mi aiutava a nascondere e a migliorare il sistema segreto di corrispondenza tattile tra la bestia e la bella – tra la mia bestia imbavagliata e traboccante e la bellezza del suo corpo con le fossette e l'innocente abitino di cotone.
Sentii, sotto la punta guizzante delle mie dita, i minuscoli peli che le si rizzavano impercettibilmente sugli stinchi. Mi perdetti nel calore acre ma sano che aleggiava intorno a Lo come una bruma estiva. Fa' che non si alzi, fa' che non si alzi... Mentre si allungava per gettare nel caminetto il torsolo della mela esaurita, il suo giovane peso, le sue tibie spudorate e innocenti e il sederino rotondo si spostarono sul mio grembo teso, torturato, surrettiziamente operoso, e tutt'a un tratto i miei sensi soggiacquero a un arcano cambiamento. Mi trovai in una dimensione dell'essere nella quale nulla importava, se non l'infuso di gioia che andava fermentando dentro il mio corpo. Ciò che era cominciato come una deliziosa dilatazione delle mie fibre più intime divenne un ardente formicolio che ora aveva raggiunto uno stato di assoluta fiducia, sicurezza e impunibilità, altrimenti inesistente nella vita conscia. Quella profonda, torrida sensazione di dolcezza era così consolidata e prossima all'estremo sussulto che mi parve di potermi frenare per prolungarne l'incandescenza. Lolita era ormai solipsizzata e al sicuro. Il sole implicito pulsava nei pioppi espliciti; eravamo fantasticamente, divinamente soli; la guardavo, rosea, cosparsa d'oro, oltre il velo della mia controllata voluttà – ignara, remota, il sole sulle labbra –, e le labbra formavano ancora, a quel che sembrava, il ritornello Carmen-barmen che non raggiungeva più la mia coscienza. Era tutto pronto, ormai. I nervi del piacere erano scoperti. I corpuscoli di Krause stavano superando la soglia della frenesia. La minima pressione sarebbe bastata a scatenare tutto il paradiso. Avevo cessato di essere Humbert il Botolo, il degenerato bastardo dagli occhi tristi abbarbicato allo stivale che lo caccerà via a calci. Ero al di sopra delle tribolazioni del ridicolo, al di là d'ogni possibile resa dei conti. Nell'harem da me creato ero un turco vigoroso e raggiante, che rimanda a bella posta, nella piena consapevolezza della propria libertà, il momento in cui godrà della più giovane e fragile tra le sue schiave. Sospeso sull'orlo di quell'abisso voluttuoso (una sfumatura dell'equilibrio fisiologico paragonabile a certe tecniche artistiche) continuavo a ripetere, imitando Lo, qualche parola a casaccio – barmen, allarmen, toccarmen, oh Carmen, a-men, a-a-amen – come chi parli e rida nel sonno, mentre con mano felice avanzavo sulla sua gamba solatia sin dove lo consentiva l'ombra della decenza. Il giorno prima era andata a sbattere contro il massiccio comò del corridoio e... «Guarda! Guarda!» dissi boccheggiando. «Guarda che cosa hai fatto, che cosa ti sei fatta, guarda!»; perché c'era, lo giuro, un livido d'un viola giallastro sull'adorabile coscia di ninfetta che la mia manona pelosa massaggiava e pian piano avviluppava; e grazie alla sua biancheria pro forma sembrava che nulla potesse impedire al mio pollice muscoloso di raggiungere il caldo alveo del suo inguine – proprio come si può carezzare e solleticare un bimbo che ride... solo questo... «Non è niente!» gridò Lo con un'improvvisa nota stridula nella voce, e si divincolò, si dimenò, gettò indietro la testa, e i denti premettero contro il lucido labbro inferiore mentre si voltava a mezzo, e per poco la mia bocca gemente non raggiunse quel collo nudo, signori della giuria, mentre spremevo contro la sua natica sinistra l'ultimo spasimo dell'estasi più lunga che uomo o mostro avessero mai sperimentato.
Subito (come se dopo esserci azzuffati io avessi allentato la presa) Lo rotolò via dal sofà e balzò in piedi – o meglio su un piede solo – per rispondere al formidabile squillo del telefono, che per quanto mi riguardava poteva anche aver suonato da secoli. E lì rimase, scarmigliata, le guance in fiamme, battendo le palpebre e sfiorando me e il mobilio con gli stessi occhi indifferenti, e mentre ascoltava o parlava (con sua madre che le diceva di raggiungerla dai Chatfield per pranzo – né Lo né Hum sapevano cosa stesse complottando quell'impicciona) continuava a battere sul bordo del tavolo la pantofola che aveva in mano. Benedetto Iddio, non s'era accorta di nulla!
Con un fazzoletto di seta variopinta sul quale i suoi occhi in ascolto si soffermarono un istante mi asciugai il sudore dalla fronte e, immerso in quell'euforico sollievo, riordinai le mie vesti regali. Lei era sempre al telefono e contrattava con mammà (voleva che la venissero a prendere in macchina, la mia piccola Carmen) mentre, con un canto sempre più forte, salivo le scale a precipizio e facevo scrosciare nella vasca un diluvio d'acqua fumante.
A questo punto tanto vale che scriva per intero le parole di quella canzonetta di successo – quanto ne ricordo, almeno; non credo di averla mai saputa bene. Eccola qui:

O Carmen, mia piccola Carmen,
lalalà, e le notti stellate,
e le auto, i bar, i barmen,
e, pupa bella, le terribili scenate.

Tu che ridevi prima d'abbracciarmi
e la nostra rissa ahimè finale
e l'arma che ti uccise, o mia Carmen,
questa pistola che ti fu fatale.

(Aveva tirato fuori l'automatica calibro 32, immagino, e la pupa s'era beccata una pallottola in un occhio).

12


Questa risultò l'ultima di una ventina di annotazioni. Si osserverà leggendole che, per quanto inventivo possa essere il diavolo, lo schema quotidiano non variava mai. Prima egli mi tentava e poi mi frustrava, lasciandomi con un dolore sordo alla radice stessa del mio essere. Io sapevo esattamente quello che volevo fare, e come farlo, senza violare la castità di una bambina; m'ero pur fatto un po' d'esperienza nella mia vita pederotica. Avevo posseduto visivamente, nei parchi, varie ninfette maculate di luce; mi ero incuneato, guardingo e animalesco, nell'angolo più torrido e gremito di un autobus pieno di scolare aggrappate alle maniglie. Ma da quasi tre settimane le mie patetiche macchinazioni venivano sistematicamente interrotte. La colpevole di queste interruzioni era di solito la Haze (la sua paura, come il lettore potrà notare, non era tanto che io godessi di Lo, ma che Lo traesse piacere da me). La passione che avevo maturato per quella ninfetta – la prima ninfetta della mia vita che potessi finalmente raggiungere coi miei artigli goffi, pavidi e dolenti – mi avrebbe certo ricacciato in una clinica, se il diavolo non si fosse accorto che, per poter giocare ancora con me, doveva concedermi un po' di sollievo.
Il lettore avrà notato anche il curioso Miraggio del Lago. Sarebbe stato logico, da parte di Aubrey McFatum (così mi piacerebbe soprannominare quel mio diavolo), prepararmi una sorpresina sulla spiaggia promessa, nella presunta foresta. Ma nella promessa della Haze si celava l'imbroglio: mi aveva taciuto che sarebbe venuta anche Mary Rose Hamilton (a sua volta una piccola bellezza bruna), e che le due ninfette avrebbero parlottato tra loro, e giocato tra loro, e se la sarebbero spassata un mondo mentre la Haze e il suo bel pensionante conversavano composti e seminudi al riparo da sguardi importuni. Eppure, fra parentesi, gli sguardi importunarono e le lingue ciarlarono. Com'è strana la vita! Noi tutti ci premuriamo di stornare proprio il destino che volevamo blandire. Prima del mio arrivo, difatti, la mia affittacamere aveva in mente di far venire in casa, con Lolita e me, una certa signorina Phalen, una vecchia zitella la cui madre era stata cuoca dagli Haze; e lei, career-girl in pectore, si sarebbe cercata un lavoro confacente nella città più vicina. La Haze si era figurata la situazione con grande chiarezza: da un lato l'occhialuto, gibboso Herr Humbert, venuto coi suoi bauli mitteleuropei a coprirsi di polvere nel suo angolino, dietro una pila di vecchi tomi; dall'altro la figlioletta, bruttina e poco amata, sorvegliata con rigore dalla signorina Phalen, che già una volta aveva tenuto la mia Lo sotto la sua ala d 'avvoltoio (lei ricordava l'estate del 1944 con un fremito d'indignazione); e infine la Haze medesima impiegata come receptionist in un'elegante metropoli. Ma un evento non troppo cervellotico venne a intralciare quel programma: la signorina Phalen si fratturò un'anca a Savannah, in Georgia, il giorno stesso del mio arrivo a Ramsdale.

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Il reperto numero due è un'agendina rilegata in finta pelle nera, con un anno dorato, il 1947, inciso en escalier sull'angolo in alto a sinistra. Parlo di questo grazioso prodotto della Ics-Ipsilon, Ipsilant, Michigan, come se l'avessi davvero davanti agli occhi. In realtà è andato distrutto cinque anni fa; ciò che esaminiamo ora (per cortese concessione della memoria fotografica) è soltanto la sua fuggevole materializzazione, una sparuta, implume fenice.
Ricordo con tanta precisione quel diario perché, in verità, lo scrissi due volte. Prima buttavo giù ogni appunto a matita (con molte cancellature e correzioni) sui fogli di quel che in commercio è conosciuto come «blocco»; e poi copiavo il tutto, con lapalissiane abbreviazioni, sull'agendina nera sopra menzionata, con la mia scrittura più minuscola e satanica.
Nel New Hampshire il 30 maggio è per decreto Giorno di Digiuno, ma non nelle due Caroline. Quel giorno un'epidemia di «influenza addominale» (che cosa sia, non lo so) costrinse le scuole di Ramsdale a chiudere i battenti sino alla fine dell'estate. Quanto ai dati meteorologici, il lettore può controllarli sul «Ramsdale Journal» del 1947. Io mi ero trasferito in casa Haze da qualche giorno, e il piccolo diario che ora mi propongo di riscrivere macchinalmente (pressappoco come una spia ripete a memoria il contenuto del biglietto che ha ingoiato) copre la maggior parte del mese di giugno.
Giovedì. Giornata caldissima. Dal mio osservatorio (finestra del bagno) ho visto Dolores che ritirava il bucato nella luce verde mela dietro la casa. Sono uscito a fare quattro passi. Aveva una camicia scozzese, i blue jeans e le scarpe da tennis. Ognuno dei suoi movimenti, nella luce maculata del sole, pizzicava la corda più sensibile e recondita del mio corpo abietto. Dopo un po' mi si è seduta accanto sul gradino più basso del terrazzino e si è messa a raccogliere i sassolini che aveva in mezzo ai piedi – sassolini, Dio mio, e poi un vetro incurvato, residuo di una bottiglia del latte, che sembrava un labbro ringhiante – e a tirarli contro una lattina. Ping. No, basta! Non puoi colpirla di nuovo. È una tortura! Di nuovo. Ping. Pelle mirabile, oh, mirabile: tenera e brunita, senza la minima imperfezione. I gelati con lo sciroppo fanno venire l'acne. La sostanza untuosa, detta sebo, che nutre i follicoli piliferi della pelle crea, quando è in eccesso, un'irritazione che apre la via alle infezioni. Ma le ninfette non hanno l'acne, benché s'ingozzino di cibi pesanti. Dio, che tormento quel serico lucore sulla tempia, che va digradando nel castano luminoso dei capelli! E l'ossicino che palpita sul fianco della caviglia impolverata! «Chi, la McCoo? Ginny McCoo? Oh, è un orrore. E cattiva, anche. E zoppa. Per un pelo non è morta di poliomielite». Ping. Gli scintillanti arabeschi di peluria sull'avambraccio. Quando s'è alzata per portar dentro i panni ho potuto adorare a distanza il posteriore scolorito dei jeans arrotolati fino a metà polpaccio. L'insulsa Haze, completa di macchina fotografica, è spuntata dal prato come il chimerico albero di un fachiro, e dopo alcune manovre eliotropiche – sguardo triste in su, sguardo lieto in giù – ha avuto la sfrontatezza di immortalarmi mentre sedevo sui gradini strizzando gli occhi, Humbert le Bel.
Venerdì. L'ho vista andare in qualche posto con una brunetta di nome Rose. Perché il suo modo di camminare – una bambina, badate, nient'altro che una bambina! – mi eccita così mostruosamente? Analizziamolo. Gli alluci appena appena all'indentro. Una sorta di sussultante scioltezza sotto il ginocchio, prolungata sino alla fine di ogni passo. L'ombra di uno strascichio. Molto infantile, infinitamente adescante. Humbert Humbert è infinitamente commosso anche dal gergo della piccola, dalla sua voce agra e acuta. Più tardi l'ho sentita bersagliare Rose, dall'altra parte della siepe, con una serie di grossolane sciocchezze. Mi vibravano dentro, stridule, con un ritmo crescente. Pausa. «Ora devo andare, piccola».
Sabato. (Prime righe forse rimaneggiate). Lo so che è da pazzi tenere questo diario, ma il farlo mi dà uno strano brivido; e solo una moglie amorosa potrebbe decifrare la mia microscopica grafia. Lasciatemi dichiarare con un singhiozzo che oggi la mia L. ha preso il sole sulla cosiddetta «loggia», ma sua madre e un'altra signora erano sempre tra i piedi. Certo, avrei potuto mettermi sulla sedia a dondolo e fingere di leggere, ma per non correre rischi ho girato al largo: temevo che l'orribile, insano, ridicolo e patetico tremore che mi scuoteva mi avrebbe impedito di fare la mia entrée con una minima parvenza di disinvoltura.
Domenica. Il fiotto di calore non ci lascia; settimana delle più favoniane. Stavolta ho guadagnato una posizione strategica sulla sedia a dondolo della loggia, con giornale obeso e pipa nuova, prima della comparsa di L. Con mia cocente delusione è arrivata con sua madre, entrambe in due pezzi neri, nuovi come la mia pipa. Il mio tesoro, la mia passione mi si è fermata accanto per un attimo (voleva la pagina dei fumetti), e aveva quasi l'identico odore dell'altra, quella della Costa Azzurra, ma più intenso, con sfumature più crude – un torrido afrore che ha subito messo in moto la mia virilità; ma già mi aveva strappato l'agognata rubrica e s'era ritirata sulla stuoia, accanto a mamma foca. Là la mia bellezza s'è sdraiata bocconi, mostrando a me e alle mille pupille sgranate del mio sangue occhiuto le scapole appena sollevate, e la peluria lungo l'incurvatura della spina dorsale, e il gonfiore delle sode, strette natiche fasciate di nero, e la balneare esposizione delle cosce da scolaretta. In silenzio, l'alunna di seconda media leggeva con diletto i suoi fumetti verdi rossi e blu. Era la più bella ninfetta che Priapo – verde rosso e blu – potesse escogitare. Mentre, con le labbra aride, continuavo a guardarla attraverso iridescenti strati di luce, mettendo a fuoco la mia libidine e dondolandomi appena sotto il giornale, mi sono reso conto che il vederla così, se mi concentravo in modo adeguato, poteva bastare a procurarmi immediatamente un godimento da poveracci; ma come un rapace che preferisca una preda in movimento a una immobile, ho progettato di far coincidere quel misero trionfo con uno dei vari movimenti puerili che lei faceva di tanto in tanto nel leggere, come cercare di grattarsi in mezzo alla schiena rivelando un'ascella punteggiata – ma di colpo la grassa Haze ha rovinato tutto girandosi verso di me per chiedermi un fiammifero, e dando inizio a una pseudoconversazione sul libro fasullo di un qualche impostore di successo.
Lunedì. Delectatio morosa. Trascorrono tetre e lente le mie dolorose giornate. Questo pomeriggio dovevamo andare (mamma Haze, Dolores e io) al vicino Lago a Clessidra, per fare il bagno e crogiolarci al sole; ma a mezzogiorno il mattino madreperlaceo è degenerato in pioggia, e Lo ha fatto una scenata.
È stato calcolato che a New York e a Chicago l'età media della pubescenza femminile è di tredici anni e nove mesi. Questa età può variare, da individuo a individuo, tra i dieci anni, o anche meno, e i diciassette. Quando Harry Edgar la possedette, Virginia non aveva ancora compiuto quattordici anni. Le dava lezioni di algebra. Je m'imagine cela. Trascorsero la luna di miele a Petersburg, Florida. «Monsieur Poepoe», come uno degli allievi parigini di Monsieur Humbert Humbert chiamava il poeta-poeta.
Stando agli specialisti di sessualità infantile, io ho tutte le caratteristiche atte a risvegliare una reciprocità nelle ragazzine: mascella squadrata, mano muscolosa, voce profonda e sonora, spalle larghe. Inoltre, dicono che io somigli a non so più quale attore o cantante confidenziale per il quale Lo ha preso una cotta.
Martedì. Pioggia. Lago delle Piogge. Mamma a far compere. L., lo sapevo, era vicina. Grazie ad alcune furtive manovre, l'ho incontrata nella camera di sua madre. Si teneva l'occhio sinistro spalancato per toglierne un bruscolo. Vestito a quadretti. Per quanto io adori la sua bruna, inebriante fragranza, penso davvero che dovrebbe lavarsi i capelli, ogni tanto. Per un momento ci siamo trovati entrambi nel medesimo, tiepido, verde bagno dello specchio, che rifletteva nel cielo, insieme a noi due, la sommità d'un pioppo. L'ho presa bruscamente per le spalle, poi teneramente per le tempie, girandola verso di me. «È qui,» ha detto «lo sento». «Una contadina svizzera userebbe la punta della lingua». «Per leccarlo via?». «Thì. Poth-tho provare io?». «Okay». Ho premuto con delicatezza il mio palpitante pungiglione sul globo salso e roteante. «Viva!» ha detto lei, sbattendo le palpebre. «È uscito davvero!». «Adesso l'altro». «Scemo,» ha cominciato «non c'è nie...», ma a questo punto ha notato le mie labbra protese. «Okay» ha detto in tono accomodante, e il tetro Humbert, chinandosi verso il viso caldo e arrossato rivolto all'insù, ha premuto la bocca contro la palpebra tremula. L. ha riso e, sfiorandomi, è uscita dalla stanza. Subito m'è parso di avere il cuore dappertutto. Mai nella mia vita... neanche quando accarezzavo il mio amore bambino in Francia... mai...
Notte. Mai sperimentato un simile supplizio. Vorrei descrivere il suo viso, il suo modo di fare... e non posso, perché quando è vicina il desiderio acceca. Non sono abituato alla presenza delle ninfette, dannazione. Se chiudo gli occhi vedo di lei soltanto una frazione immobilizzata, l'inquadratura pubblicitaria di un film, il lampo di un'avvenenza levigata e occulta mentre, seduta, si allaccia una scarpa con il ginocchio alzato sotto la gonna scozzese. «Dolores Haze, ne montrez pas vos zhambes» (questa è sua madre, che crede di sapere il francese).
Poeta à mes heures, ho composto un madrigale per le ciglia nere come fuliggine di quegli occhi vuoti d'un grigio pallido, per le cinque lentiggini asimmetriche di quel nasino all'insù, per la peluria bionda delle sue membra brune; ma l'ho stracciato, e oggi non riesco a ricordarlo. Solo coi termini più triti (riprendo il diario) riesco a descrivere i tratti di Lo: potrei dire che ha i capelli di un castano ramato, e le labbra rosse come una caramella rossa leccata – quello inferiore graziosamente tumido... oh, se fossi una scrittrice e potessi farla posare nuda in una nuda luce! E invece sono l'alto, magro, dinoccolato Humbert Humbert, con il torace villoso, le folte sopracciglia nere e il suo strano accento, e una cloaca di mostri putrescenti dietro il lento sorriso da ragazzo. Nemmeno lei, del resto, è la fragile fanciulla dei romanzi rosa. Quello che mi fa impazzire è la natura doppia di questa ninfetta – di ogni ninfetta, forse; questo miscuglio, nella mia Lolita, di un'infantilità tenera e sognante e di una sorta di raccapricciante volgarità, che discende dalle stucchevoli fotomodelle della pubblicità e delle riviste, coi loro nasetti sbarazzini; dal colorito roseo e vago delle servette adolescenti della vecchia Europa (odorose di margherite schiacciate e sudore); e dalle giovanissime sgualdrine travestite da bambine nei bordelli di provincia; e ancora, tutto questo si confonde con la squisita, immacolata tenerezza che filtra attraverso il muschio e la mota, la sozzura e la morte, oh Dio, oh Dio! E la cosa più singolare è che lei, questa Lolita, la mia Lolita, ha personificato l'antica brama di chi scrive, così che sopra tutto c'è... Lolita.
Mercoledì. «Allora, convinca la mamma a portarci al lago, domani». Queste le testuali parole pronunciate con un voluttuoso bisbiglio dalla mia fiamma dodicenne quando ci siamo scontrati sulla veranda, io diretto in casa, lei fuori. Il riflesso del sole pomeridiano, un corrusco diamante bianco dagli innumerevoli aculei iridescenti, tremolò sul baule tondeggiante di una macchina in sosta. Il fogliame di un olmo voluminoso disegnava le proprie ombre pastose sul muro rivestito di assi. Due pioppi oscillanti tremolavano. Si percepivano i suoni informi del traffico lontano; una bambina chiamava «Nancy! Nan-cy!». In casa Lolita ascoltava il suo disco preferito, Piccola Carmen, che io chiamavo Carmen-sitter.
Giovedì. Ieri sera eravamo sulla loggia, la Haze, Lolita e io. Il crepuscolo tiepido si era stemperato in un'amorosa oscurità. La tardona aveva finito di raccontare con gran profusione di particolari la trama di un film che lei e L. avevano visto quell'inverno. Il pugile era caduto molto in basso, ma poi aveva incontrato il buon vecchio prete (che nella sua gagliarda gioventù era stato a sua volta pugile, e sapeva ancora darle di santa ragione ai peccatori). Eravamo seduti per terra su un mucchio di cuscini, e L. stava tra quell'altra e me (si era insinuata fra noi, il tesorino). A mia volta mi sono lanciato in un esilarante resoconto delle mie avventure artiche. La musa dell'invenzione mi ha allungato un fucile, col quale ho sparato a un orso bianco che si è messo a sedere e ha detto: «Ah!». Intanto percepivo acutamente la vicinanza di L.; parlando e gesticolando in quel buio misericordioso ho approfittato di uno dei miei moti invisibili per toccarle la mano, la spalla e una ballerinetta di lana e tulle con cui giocava continuando a ficcarmela in grembo; e infine, dopo aver completamente irretito il mio ardente tesoro in quella trama di carezze eteree, ho osato sfiorarle la gamba nuda sulla lanugine d'uva spina dello stinco, e ridevo delle mie battute, e tremavo, e celavo i miei tremori, e un paio di volte ho sentito con labbra fuggevoli il tepore dei suoi capelli e, carezzando il suo giocattolo, le ho sussurrato un rapido, scherzoso «a parte» strofinando il naso sulla sua pelle. Anche lei si è agitata parecchio, tanto che alla fine sua madre le ha detto bruscamente di smetterla e ha lanciato la bambola nel buio, e io ho riso al di sopra delle gambe di Lo, e mi sono rivolto alla Haze per potermi avventurare con la mano su per l'esile schiena della mia ninfetta e tastarle la pelle attraverso la camicia da ragazzo.
Ma sapevo che non c'era speranza; ero così torturato dalla bramosia, così penosamente compresso dai vestiti, che mi sono sentito quasi sollevato quando la voce calma di sua madre ha annunciato nel buio: «E ora tutti pensiamo proprio che Lo dovrebbe andare a letto». «Io penso proprio che fai schifo» ha detto Lo. «Vuol dire che domani niente picnic» ha ribattuto la Haze. «Siamo in un paese libero» ha continuato Lolita. Quindi, arrabbiatissima, se n'è andata con una pernacchia, e io sono rimasto per pura forza di inerzia mentre la Haze fumava la decima sigaretta della serata e si lamentava di Lo.
Già a un anno, sa, era una bambina dispettosa, gettava i giocattoli fuori dal lettino, la carognetta, e la sua povera mamma doveva continuare a raccoglierli! Adesso, a dodici anni, era una vera peste, ha continuato. L'unica cosa che voleva dalla vita era dimenarsi a ritmo di boogie-woogie o esibirsi roteando un bastone da majorette. Prendeva brutti voti, ma qui si era adattata meglio che a Pisky (Pisky era la città natale degli Haze nel Middle West. Lei aveva ereditato la casa di Ramsdale da sua suocera, e ci si erano trasferite meno di due anni prima). «Perché non stava bene, là?». «Oh, guardi, ci sono passata anch'io, povera me, quando ero piccola! I ragazzi ti torcono un braccio, ti vengono apposta addosso con una pila di libri, ti tirano i capelli, ti schiacciano il seno, ti alzano la sottana. È vero, tutti gli adolescenti hanno dei momenti di cattivo umore, è un fatto concomitante dell'età dello sviluppo, ma Lo esagera. È musona e sfuggente. Screanzata e ribelle. Ha ficcato una penna stilografica nel didietro di Viola, una sua compagna italiana. Sa cosa mi piacerebbe? Se lei, Monsieur, fosse ancora qui quest'autunno, le chiederei di aiutarla a fare i compiti... Lei sembra saper tutto, la geografia, la matematica, il francese...». «Oh, tutto» ha risposto Monsieur. «Allora» ha aggiunto in fretta la Haze «vuol dire che resterà!». Avevo voglia di urlare che sarei rimasto in eterno, se solo avessi avuto la speranza di accarezzare ogni tanto la mia neoallieva. Ma diffidavo della Haze; così mi sono limitato a bofonchiare qualcosa, e poi, stiracchiandomi in modo non concomitante (le mot juste), mi sono ritirato in camera mia. La donna, però, non era evidentemente disposta a considerare conclusa la giornata. Ero già adagiato sul mio freddo letto, le mani che mi premevano sul viso il fragrante fantasma di Lolita, quando ho udito la mia instancabile padrona di casa che si avvicinava furtiva alla mia porta – solo per informarsi, ha detto in un sussurro, se avevo finito la rivista scandalistica che mi aveva prestato l'altro giorno. Dalla sua stanza Lo ha strillato che l'aveva presa lei. Questa casa è proprio una biblioteca circolante, fulmini divini!
Venerdì. Mi chiedo che cosa direbbero i miei editori accademici se citassi nel mio testo «la vermeillette fente» di Ronsard, o «un petit mont feutré de momse délicate, tracé sur le milieu d'un fillet escarlatte» di Remy Belleau, e così via. Se resto ancora in questa casa avrò probabilmente un altro esaurimento nervoso – lo sforzo di questa tentazione intollerabile accanto al mio tesoro... mio tesoro... mia vita e mia sposa. Chissà se madre natura l'ha già iniziata al Mistero del Menarca? Senso di gonfiore. È arrivato il marchese. Le cose. Piove in casa. «Il signor Utero (cito da una rivista per ragazzine) comincia a costruire una parete spessa e soffice, nell'eventualità che debba fare da culla a un bambino». Il minuscolo pazzo nella cella imbottita.
A proposito: se mai commettessi un assassinio serio... Notate il «se». Lo stimolo dovrebbe essere qualcosa di più di quello che mi successe con Valeria. Notate scrupolosamente che allora ero piuttosto inetto. Se mai vorrete farmi sfrigolare a morte su quella sedia, ricordate che solo un accesso di follia potrebbe darmi l'energia elementare per diventare un bruto (intero passaggio forse rimaneggiato). A volte, nei miei sogni, cerco di uccidere. Ma sapete che cosa succede? Per esempio ho in mano una pistola. Per esempio miro a un nemico mite, a cui le mie azioni interessano fino a un certo punto. Oh sì, premo il grilletto, ma dalla bocca imbarazzata della mia arma le pallottole cadono fiaccamente a terra. In quei sogni la mia unica preoccupazione è nascondere il mio fiasco al nemico, che comincia lentamente a seccarsi.
Stasera a cena la serpe mi ha detto, indirizzando a Lo uno sguardo in tralice scintillante di scherno materno (avevo appena descritto, in tono scherzoso, i deliziosi baffetti a spazzolino che non mi ero ancora deciso a farmi crescere): «Meglio di no, se non vogliamo che qualcuno perda completamente la testolina!». Subito Lo ha spinto da parte il suo pesce bollito, quasi rovesciando il bicchiere di latte, e si è precipitata fuori dalla stanza. «La annoierebbe molto» ha soggiunto la Haze «venire domani a fare una nuotata nel lago, se Lo chiederà scusa per le sue maniere?».
Più tardi ho sentito, dagli antri frementi in cui le due rivali si stavano accapigliando, un gran sbattere di porte e altri suoni.
Non ha chiesto scusa. Niente lago. Poteva essere divertente.
Sabato. Già da qualche giorno, quando scrivo in camera mia, lascio la porta socchiusa; ma soltanto oggi la trappola ha funzionato. Più irrequieta del solito, ciabattando e strascicando i piedi – per nascondere l'imbarazzo di essere entrata senza invito –, Lo è entrata e dopo aver ciondolato un po' per la stanza si è interessata ai ghirigori da incubo che con la penna avevo tracciato su un foglio. Oh no: non erano frutto della pausa ispirata di uno scrittore tra un paragrafo e l'altro; erano gli abominevoli geroglifici (che lei non poteva decifrare) della mia fatale lussuria. Mentre Lo chinava i riccioli castani sulla scrivania a cui ero seduto, Humbert il Rauco l'ha cinta con un braccio nella patetica imitazione di una familiarità tra consanguinei; e la mia innocente, piccola visitatrice, continuando a studiare con sguardo miope il foglio che aveva in mano, si è calata lentamente sul mio ginocchio in una posizione semiseduta. Il suo profilo adorabile, le labbra dischiuse, i tiepidi capelli erano a una decina di centimetri dal mio canino scoperto; e attraverso i ruvidi vestiti da ragazzaccio ho sentito il calore delle sue membra. D'un tratto mi sono reso conto che potevo baciarle la gola o l'angolo della bocca con assoluta impunità. Sapevo che mi avrebbe lasciato fare, magari chiudendo gli occhi, come insegna Hollywood. Un doppio gelato di vaniglia col cioccolato caldo... appena più insolito di quello. Non so dire al mio dotto lettore (le sopracciglia, sospetto, gli saranno ormai arrivate sul retro del cranio calvo), non so dirgli come me ne sia reso conto; forse il mio orecchio di scimmione aveva colto inconsapevolmente un lieve cambiamento nel ritmo del suo respiro – perché adesso non stava davvero guardando i miei scarabocchi, ma aspettava con curiosità e compostezza (oh, la mia limpida ninfetta!) che il fascinoso pensionante facesse quello che moriva dalla voglia di fare. Una bambina moderna, avida lettrice di riviste di cinema, esperta di primi piani lenti come sogni, non avrebbe trovato troppo strano, pensavo, che un amico adulto, prestante e intensamente virile... troppo tardi. La voce della garrula Louise ha fatto vibrare la casa; raccontava alla Haze, or ora rincasata, di non so quale bestiola morta che lei e Leslie Tomson avevano trovato in cantina, e per nulla al mondo la piccola Lolita si sarebbe persa una simile chicca.
Domenica. Volubile, scorbutica, allegra, goffa, aggraziata – la grazia agra della sua prima adolescenza di puledra –, tormentosamente desiderabile dalla testa ai piedi (tutto il New England per la penna di una scrittrice donna!), dal fiocco nero confezionato alle mollette che le tengono a posto i capelli, alla piccola cicatrice sul polpaccio armonioso (in basso, dove a Pisky un ragazzo coi pattini a rotelle le ha dato un calcio), cinque centimetri sopra i ruvidi calzini bianchi. È andata con sua madre dagli Hamilton una festa di compleanno, o qualcosa del genere. Vestito di percalle, gonna ampia. Le sue colombelle sembrano già ben formate. Tesorino precoce!
Lunedì. Mattino di pioggia. «Ces matins gris si doux...». Il mio pigiama bianco ha un fregio lilla sul dorso. Sono come uno di quei ragni pallidi e gonfi che si vedono nei giardini antichi: insediati nel mezzo di una tela luccicante, danno piccoli strattoni a questo o quel filo. Mentre sto seduto come un mago scaltro sulla mia sedia, aguzzando l'orecchio, la mia ragnatela è tesa su tutta la casa. È in camera sua, Lo? Delicatamente tiro la mia seta. Non c'è. Ho appena sentito lo staccato intermittente del rullo della carta igienica; e la mia antenna non ha percepito nessun passo dal bagno alla sua stanza. Si starà lavando i denti (l'unico atto sanitario cui Lo si dedichi con autentico entusiasmo)? No. La porta del bagno si è appena chiusa con un tonfo; bisogna captare altrove la presenza della bella preda dai caldi colori. Facciamo scendere un filo di seta giù per le scale. In questo modo mi persuado che non è in cucina – la porta del frigo non sbatte, nessuno strillo rivolto all'aborrita mammina (che, immagino, è impegnata nella terza telefonata del mattino, tutta cinguettii e risatine trattenute). Ebbene, tastiamo, speriamo ancora. Come un raggio di luce m'insinuo col pensiero nel salotto e trovo la radio zitta (e mamma che continua a parlare sottovoce con la Chatfield o la Hamilton, tutta sorrisi e guance di porpora; fa coppa sul microfono con la mano libera, nega tacitamente di negare quei divertenti pettegolezzi e paroline e pensierini sul pensionante, bisbiglia in tono confidenziale come non fa mai, la distinta signora, parlando vis-à-vis). Ma allora la mia ninfetta non è proprio in casa! Se n'è andata! Quella che credevo una trama iridescente si rivela null'altro che una vecchia ragnatela polverosa; la casa è vuota, è morta. Ed ecco, attraverso la mia porta socchiusa, la tenera, sommessa risatina di Lolita: «Non lo dica alla mamma, ma le ho mangiato tutta la pancetta!». Quando mi precipito fuori dalla stanza è già scomparsa. Lolita, dove sei? Il vassoio della colazione, amorosamente preparato dalla padrona di casa, mi rivolge un ghigno sdentato, pronto a esser portato in camera. Lola, Lolita!
Martedì. Di nuovo le nuvole hanno posticipato il picnic su quell'irraggiungibile lago. Sarà il Fato che ci mette lo zampino? Ieri mi sono provato un costume da bagno nuovo davanti allo specchio.
Mercoledì. Nel pomeriggio la Haze (scarpe comode, abito di sartoria) ha detto che andava in centro a comprare un regalo per l'amica di un'amica; chissà se sarei stato così gentile da accompagnarla, visto che avevo tanto gusto in fatto di tessuti e profumi? «Scelga la sua seduzione preferita» tubò. Che cosa mai poteva rispondere Humbert, lavorando nel ramo dei profumi? Mi aveva incastrato tra la veranda e l'automobile. «Su, presto!» ha detto mentre piegavo faticosamente in due il mio corpo ingombrante per infilarmi in macchina (continuando a cercare disperatamente una via di scampo). Aveva messo in moto e lanciava una serie di eufemistiche imprecazioni verso un furgone che svoltava a marcia indietro – dopo aver consegnato alla signorina Dirimpetto, invalida vecchietta, una sedia a rotelle nuova di zecca –, quando dalla finestra del salotto è arrivata la voce stridente della mia Lolita: «Ehi! Dove state andando? Vengo anch'io! Aspettate!». «La ignori!» ha guaito la Haze (lasciando spegnere il motore); ma, purtroppo per la mia leggiadra autista, Lo stava già tirando la portiera dalla mia parte. «È una cosa inammissibile!» ha detto la Haze, ma Lo, con un fremito di trionfo, si era già intrufolata dentro. «Muova il didietro, lei!» ha detto Lo. «Lo!» ha strillato la Haze (guardandomi di sbieco, nella speranza che buttassi fuori la zoticona). «Col cavo-lo!» ha detto Lo (non era la prima volta), mentre come me dava uno scarto all'indietro e la macchina faceva un balzo in avanti. «È inammissibile» ha detto la Haze, mettendo con foga la seconda «che una bambina sia così maleducata! E così insistente! Quando sa di non essere desiderata. E ha bisogno di un bagno».
Le mie nocche premevano contro i blue jeans della bambina. Era scalza; sulle unghie aveva rimasugli di uno smalto color ciliegia, e un brandello di cerotto sull'alluce; e Dio, che cosa non avrei dato per baciare immediatamente quei piedi dalle ossa sottili, dalle dita lunghe, quei piedi da scimmietta! D'un tratto la mano di Lo scivolò nella mia, e all'insaputa del nostro chaperon io strinsi e accarezzai e avvinghiai quella zampetta ardente per tutto il tragitto. Le pinne del naso marleniforme della guidatrice erano lucide, avendo perduto o consumato la loro razione di cipria, e lei proseguiva un suo elegante monologo a proposito del traffico locale, e sorrideva di profilo, e sporgeva le labbra di profilo, e sbatteva le palpebre bistrate di profilo, mentre io pregavo Dio di non arrivare mai a quel negozio; ma ci siamo arrivati. Non ho nient'altro da riferire, se non, primo: al ritorno la Haze grande ha fatto sedere la Haze piccola sul sedile posteriore; e secondo: la signora ha deciso di riservare Choix d'Humbert ai lobi delle proprie orecchie armoniose.
Giovedì. Scontiamo con grandinate e venti di tempesta l'inizio tropicale del mese. In un volume dell'Enciclopedia dei ragazzi ho trovato una cartina degli Stati Uniti che una matita infantile aveva cominciato a ricalcare su un foglio di carta leggera; sul rovescio, contro il profilo interrotto della Florida e del Golfo, c'era un elenco ciclostilato di nomi, evidentemente quelli dei suoi compagni alla scuola di Ramsdale. È una poesia che so già a memoria:

Angel, Grace
Austin, Floyd
Beale, Jack
Beale, Mary
Buck, Daniel
Byron, Marguerite
Campbell, Alice
Carmine, Rose
Chatfield, Phyllis
Clarke, Gordon
Cowan, John
Cowan, Marion
Duncan, Walter
Falter, Ted
Fantasia, Stella
Flashman, Irving
Fox, George
Glave, Mabel
Goodale, Donald
Green, Lucinda
Hamilton, Mary Rose
Haze, Dolores
Honeck, Rosaline
Knight, Kenneth
McCoo, Virginia
McCrystal, Vivian
McFatum, Aubrey
Miranda, Anthony
Miranda, Viola
Rosato, Emil
Schlenker, Lena
Scott, Donald
Sheridan, Agnes
Sherva, Oleg
Smith, Hazel
Talbot, Edgar
Talbot, Edwin
Wain, Lull
Williams, Ralph
Windmuller, Louise

Una poesia, una poesia, in verità! È stato così strano, così dolce scoprire quello «Haze, Dolores» (lei!) nella sua speciale nicchia di nomi, con la guardia del corpo di rose – una principessina da fiaba tra le due damigelle d'onore. Sto cercando di analizzare il brivido di piacere che percorre la mia spina dorsale alla vista di questo nome in mezzo a tutti gli altri. Che cos'è che mi eccita sin quasi alle lacrime (le calde, opalescenti, dense lacrime versate dai poeti e dagli innamorati)? Che cos'è? Il tenero anonimato di questo nome con il suo velo formale («Dolores») e l'astratta inversione di nome e cognome, simile a un paio di pallidi guanti nuovi, o a una maschera? È «maschera» la parola chiave? È perché c'è sempre della voluttà nel mistero semitrasparente, nel fluente chador attraverso il quale la carne e l'occhio che tu solo sei eletto a conoscere sorridono, al passaggio, soltanto a te? Oppure è perché riesco a figurarmi così bene il resto di quella colorita scolaresca intorno alla mia rosa dolorosa: Grace e i suoi brufoli maturi; Ginny con la gamba strascicata; Gordon, lo smunto masturbatore; Duncan, il buffone puzzolente; Agnes, che si mangia le unghie; Viola, la bruna dal seno ballonzolante; la graziosa Rosaline; la scura Mary Rose; l'adorabile Stella, che si è lasciata toccare dagli sconosciuti; Ralph, che è prepotente e ruba; Irving, che mi fa pena come ogni escluso. E lei perduta in mezzo a loro, detestata dagli insegnanti, rosicchia una matita, tutti gli occhi dei ragazzi sui capelli e sul collo, la mia Lolita.
Venerdì. Agogno un terrificante cataclisma. Un terremoto. Un'esplosione spettacolare. Sua madre viene eliminata in modo antiestetico, ma istantaneo e definitivo, e con lei ogni essere umano in un raggio di molte miglia. Lolita piagnucola tra le mie braccia. Libero, godo di lei tra le rovine. La sua sorpresa, i miei enunciati, i miei attestati, i miei ululati. Che fantasie oziose e idiote! Un Humbert coraggioso si sarebbe trastullato con lei nel modo più ignobile (ieri, per esempio, quando è tornata in camera mia per mostrarmi i suoi disegni, campionario scolastico); avrebbe potuto comprarla – e farla franca. Un tipo più semplice e più pratico si sarebbe con buon senso attenuto a vari surrogati commerciali – ma se voi sapete dove andare, io non lo so. Nonostante il mio aspetto virile, sono tremendamente timido. La mia anima romantica trema e suda freddo al pensiero di imbattersi in qualche atroce, sconcio contrattempo. Ricordo quegli scurrili mostri marini: «Mais allez-y, allez-y!». Annabel che saltella su un piede solo per infilarsi i calzoncini, io che cerco di farle schermo, la rabbia mi dà il mal di mare.
Stessa data, più tardi, molto tardi. Ho acceso la luce per annotare un sogno. Aveva un chiaro antecedente: a cena la Haze aveva dichiarato benevola che, essendo le previsioni per il weekend ottime, domenica, dopo la funzione, saremmo andati al lago. Mentre ero a letto, assorto in erotiche fantasticherie prima di cercare di addormentarmi, ho escogitato un piano decisivo per trarre profitto da quel picnic. Mi rendevo ben conto che mamma Haze odiava il mio tesoro perché si era preso una cotta per me, così ho architettato la mia giornata al lago in modo da far contenta la madre. Avrei parlato con lei e solo con lei; ma al momento adatto, con la scusa di aver dimenticato l'orologio o gli occhiali da sole nella radura lì accanto, mi sarei inoltrato nel bosco con la mia ninfetta. A questo punto la realtà s'è fatta da parte, e la Ricerca degli Occhiali s'è tramutata in una piccola, tranquilla orgia con una Lolita singolarmente esperta, gaia, corrotta e accomodante, che si comportava come la mia ragione sapeva bene non si sarebbe mai potuta comportare. Alle tre ho ingoiato un sonnifero, e presto un sogno che non era un seguito ma una parodia mi ha rivelato, con una sorta di pregnante nitore, il lago che non avevo ancora visto: era glassato da uno strato di ghiaccio color smeraldo, e un esquimese butterato stava cercando invano di spaccarlo con una piccozza, benché sulle rive ghiaiose fiorissero mimose e oleandri d'importazione. Sono certo che la dottoressa Blanche Schwarzmann mi avrebbe pagato con un intero sacco di scellini un simile bocconcino per il suo libidossier. Purtroppo il resto del sogno era francamente eclettico. La Haze grande e la Haze piccola cavalcavano intorno al lago, e anch'io con loro, muovendomi doverosamente su e giù, le gambe arcuate anche se in mezzo non c'era nessun cavallo, solo aria elastica... una di quelle piccole omissioni dovute alla distrazione del fornitore di sogni.
Sabato. Il cuore mi balza ancora in petto. Mi torco ed emetto gemiti sommessi di imbarazzo retrospettivo.
Veduta dorsale. Una striscia di pelle luminosa tra la maglietta e i calzoncini bianchi da ginnastica. Piegata sul davanzale, Lo strappava qualche foglia da un pioppo mentre era assorta in una torrenziale chiacchierata col ragazzo dei giornali (Kenneth Knight, sospetto), che aveva appena proiettato il «Journal» di Ramsdale sulla veranda con un tonfo molto preciso. Ho cominciato ad avanzare furtivo verso di lei – mediante «reptazione», come dicono i mimi. Braccia e gambe erano superfici convesse tra le quali – più che sulle quali – avanzavo lentamente grazie a non so quale neutro mezzo di locomozione: Humbert il Ragno Ferito. Devo averci messo delle ore per raggiungerla. Mi sembrava di guardarla dall'estremità sbagliata di un telescopio, e mi muovevo in direzione delle sue sode piccole terga come un paralitico, su arti molli e storti, assorto in una concentrazione terribile. Alla fine mi sono trovato proprio dietro di lei, ma ho avuto la sciagurata idea di strafare un po' – le ho dato uno scrollone afferrandola per la nuca, e così via, per coprire il mio vero manège, e lei è sbottata in un breve strepito lamentoso: «Ma la pianti!», col suo tono più rozzo, la villanzona, e Humbert l'Umile, con un ghigno grottesco, ha battuto tristemente in ritirata mentre lei continuava a lanciare battutine in direzione della strada.
Ma ora sentite quel che è successo poi. Dopo pranzo cercavo di leggere su una sedia a sdraio. D'un tratto due svelte manine mi hanno coperto gli occhi: mi era arrivata alle spalle, come reinscenando, in una sequenza di balletto, la mia manovra mattutina. Mentre cercavano di cancellare il sole le sue dita erano porpora traslucida, e lei faceva convulse risatine e scattava di qua e di là, e intanto io tendevo il braccio di lato e all'indietro senza altrimenti cambiare la mia posizione riversa. Con la mano ho sfiorato le sue gambe agili e ridenti, e il libro mi è scivolato giù dal grembo come una slitta, ed è arrivata la Haze che ha detto con indulgenza: «Le dia pure una bella sberla, se disturba le sue meditazioni erudite. Come amo questo giardino [nessun punto esclamativo nel suo tono]. Non è divino al sole [neanche l'interrogativo]». E con un sospiro di finta beatitudine l'importuna signora s'è calata sull'erba e, appoggiandosi sulle mani dalle dita divaricate, ha guardato il cielo; poco dopo una vecchia palla da tennis grigia è rimbalzata sorvolando il suo corpo, e dalla casa è giunta la voce sdegnosa di Lo: «Pardonnez, mamma. Non è te che volevo colpire». Ma certo che no, mio caldo amore lanuginoso.

10



Uscito dall'ospedale cominciai a cercare nel New England, in campagna o in una cittadina sonnolenta (olmi, chiesetta bianca), un posto dove poter trascorrere un'estate operosa, sostentandomi con una compatta cassa di appunti che ero andato accumulando e bagnandomi in qualche lago dei dintorni. Il lavoro mi interessava di nuovo, voglio dire i miei esercizi d’erudizione; l’altro, l'attiva partecipazione ai profumi postumi dello zio, era ormai ridotto al minimo. Uno dei suoi ex dipendenti, il rampollo di una famiglia illustre, mi propose di andare per qualche mese da un suo cugino, il signor McCoo, che aveva avuto dei rovesci di fortuna e adesso era in pensione; lui e la moglie intendevano affittare l'ultimo piano di casa loro, dove aveva delicatamente abitato un'anziana zia defunta. Disse che avevano due figliolette, l'una in fasce, l'altra sui dodici anni, e un bellissimo giardino non lontano da un bellissimo lago. Risposi che mi sembrava tutto perfettamente perfetto
Dopo uno scambio di lettere si convinsero che ero addomesticato, e trascorsi sul treno una notte sublime, fantasticando su ogni possibile dettaglio dell'enigmatica ninfetta cui avrei dato ripetizioni di francese accarezzandola in humbertesco. Nessuno venne a prendermi alla stazione giocattolo dove scesi con la mia costosa valigia nuova; nessuno rispondeva al telefono; e alla fine McCoo, fradicio e sconvolto, mi raggiunse nell'unico albergo della verde e rosea Ramsdale per comunicarmi che la sua casa era appena stata rasa al suolo da un incendio – forse in seguito alla sincrona conflagrazione che aveva imperversato tutta la notte nelle mie vene. Moglie e figlie, mi disse, erano fuggite con la macchina in una fattoria di sua proprietà, ma un'amica di sua moglie, una persona squisita, la signora Haze, Lawn Street 342, si offriva di ospitarmi. La dirimpettaia di questa Haze gli aveva prestato la sua limousine, una vettura deliziosamente antiquata, dal tetto quadro, con un negro gioviale al volante. Ora che l'unica ragione di quel mio viaggio si era dileguata, la sistemazione di cui sopra non aveva giustificazione alcuna. D'accordo, la sua casa andava ricostruita da cima a fondo; e allora? Ce l'aveva un'assicurazione, sì o no? Ero furente, deluso e seccatissimo, ma nella mia qualità di europeo beneducato non potevo esimermi da quella spedizione in carro funebre fino a Lawn Street; temevo che McCoo, pur di liberarsi di me, potesse escogitare qualcosa di ancor più cervellotico. Lo vidi sgattaiolare via, e il mio autista scosse il capo con una risatina. Strada facendo giurai a me stesso che per nulla al mondo sarei rimasto a Ramsdale; avrei preso quel giorno stesso il primo aereo per le Maldive, le Mauritius o le Malebolge. Era già un po' di tempo che le dolci possibilità di certe spiagge in technicolor mi stillavano lungo la spina dorsale; in realtà il cugino di McCoo, con quel suo premuroso consiglio dimostratosi ora assolutamente inane, non aveva fatto che stornare bruscamente il filo dei miei pensieri.
A proposito di brusche deviazioni: mentre sterzavamo per imboccare Lawn Street, per poco non investimmo un invadente cane suburbano (uno di quelli che aspettano le automobili sdraiati in mezzo alla strada). E, poco oltre, ecco casa Haze: un orrore di legno bianco dall'aria squallida e vetusta, più che bianca, grigia... una di quelle case in cui sai già che invece della doccia c'è un tubo di gomma applicabile al rubinetto della vasca. Diedi la mancia all'autista sperando che se ne andasse immediatamente, consentendomi così di fare dietro-front e tornarmene zitto zitto all'albergo e alla valigia; ma lui si limitò a portarsi all'altro lato della strada, dove un'anziana signora lo chiamava dalla veranda. Che potevo fare? Suonai il campanello.
Mi accolse una cameriera negra, che mi piantò sullo zerbino per tornare a precipizio in cucina, dove stava bruciando qualcosa che non doveva bruciare. L'ingresso era guarnito da un vezzoso carillon collegato alla porta, da un mostriciattolo di legno con le orbite bianche, genere artigianato messicano, e dallo scontato beniamino dei borghesucci con pretese artistiche, l'Arlésienne di van Gogh. Sulla destra, da una porta socchiusa, si intravedeva un salotto, con ulteriore paccottiglia messicana in un'angoliera e un sofà a strisce contro il muro. In fondo al corridoio c'erano le scale, e mentre mi asciugavo la fronte (non m'ero accorto di quanto facesse caldo, fuori) e fissavo, tanto per fissare qualcosa, una vecchia palla da tennis grigia su una cassapanca di quercia, dal pianerottolo giunse la voce di contralto della signora Haze, la quale, sporgendosi dalla ringhiera, domandò melodiosa: «È lei, Monsieur Humbert?». Insieme alla voce scese anche un po' di cenere di sigaretta. Poco dopo la signora in persona – sandali, pantaloni marrone, blusa di seta gialla, faccia quadrata, in quest'ordine – scese i gradini, l'indice che ancora picchiettava la sigaretta.
Sarà meglio che la descriva subito, per togliermi il pensiero. La poveretta era sui trentacinque anni; aveva la fronte lucida, le sopracciglia depilate e i tratti piuttosto elementari ma non sgradevoli, del tipo che si potrebbe definire una soluzione molto diluita di Marlene Dietrich. Tastandosi lo chignon di un castano bronzeo mi condusse in salotto, dove ci intrattenemmo per un minuto sull'incendio di casa McCoo e sui pregi della vita a Ramsdale. Gli occhi verde mare, molto distanziati, avevano uno strano modo di viaggiarti addosso, evitando scrupolosamente di incontrare il tuo sguardo. Il sorriso non era che lo scatto interrogativo di un sopracciglio; e mentre parlava continuava a svolgere le sue spire dal divano per gettarsi spasmodicamente verso tre posacenere e il vicino caminetto (dove giaceva il bruno torsolo di una mela); dopodiché sprofondava di nuovo nei cuscini, una gamba piegata sotto di sé. Era palesemente una di quelle donne nelle cui parole forbite si riflette magari un club del libro, o del bridge, o qualche altra micidiale banalità, ma mai l'anima; donne completamente prive di senso dell'umorismo; donne del tutto indifferenti, in cuor loro, alla dozzina di possibili argomenti da salotto, ma molto attente alle regole della conversazione di per sé, attraverso il cui solare cellophane si possono facilmente discernere frustrazioni non molto appetitose. Nell'improbabilissima eventualità che rimanessi, sapevo perfettamente con quanto metodo si sarebbe accinta a riservarmi il trattamento certo implicito, per lei, nel fatto stesso di prendere un pensionante; e mi sarei trovato di nuovo impegolato in una di quelle uggiose relazioni che conoscevo così bene.
Ma stabilirmi lì era fuori questione. Non potevo essere felice in quel genere di casa, con le sedie ingombre di riviste bisunte e una sorta di orrendo ibrido tra la farsa del cosiddetto «funzionale arredamento moderno» e la tragedia delle sedie a dondolo decrepite e dei tavolini rachitici sovrastati da lampade defunte. Mi condusse di sopra, e poi a sinistra, nella «mia» camera. La ispezionai attraverso la bruma in assoluta ripulsa, ma riuscii a distinguere sopra il «mio» letto la Sonata a Kreutzer di René Prinet. E pensare che la chiamava «camera-studio» – quel solaio per la servitù! Filiamocela subito di qui, mi dissi con fermezza, mentre fingevo di soppesare la somma minacciosamente risibile che la mia trepidante padrona di casa mi chiedeva per vitto e alloggio.
Tuttavia, la mia cortesia di vecchio stampo mi impedì di sottrarmi subito a quel cimento. Traversammo il pianerottolo e raggiungemmo il lato destro della casa («dove ci sono la stanza mia e quella di Lo», essendo Lo presumibilmente la domestica), e a stento l'inquilino-amante riuscì a trattenere un brivido quando, da maschio estremamente schizzinoso qual era, gli fu concessa un'anteprima dell'unico bagno, un minuscolo vano oblungo tra il pianerottolo e la stanza di «Lo», con flosce cose gocciolanti appese su una vasca dall'aria sospetta (dentro, il punto interrogativo di un capello); c'erano anche le previste volute del serpente di gomma, con il loro pendant – la vezzosa, scolorita foderina rosa sul coperchio del water.
«Vedo che non le ha fatto una grande impressione» disse la signora, posandomi per un attimo la mano sulla manica. C'era in lei una placida insolenza – l'eccesso di quella che mi pare si chiami «padronanza» –, combinata con una timidezza e una melanconia che davano alle sue parole, scelte ad arte, il tono innaturale del professore di retorica. «Sì, lo ammetto, la casa non è a posto,» continuò la povera condannata «ma le assicuro (mi guardava le labbra) che si troverà molto bene, anzi benissimo. Lasci che le mostri il giardino» (queste ultime parole con più brio e un guizzo accattivante nella voce).
La seguii di nuovo con riluttanza giù per le scale, e poi per la cucina in fondo al corridoio, sul lato destro della casa, dove c'erano anche la stanza da pranzo e il salotto (sotto la «mia» camera, sulla sinistra, c'era soltanto un garage). In cucina la domestica negra, giovane e grassoccia, prese la borsona di vernice nera dalla maniglia della porta che dava sul retro: «Io vado, signora Haze». «Sì, Louise» rispose la signora Haze con un sospiro. «Facciamo i conti venerdì». Attraverso una piccola dispensa entrammo nella stanza da pranzo, parallela al salotto che avevamo già ammirato. Notai un calzino bianco sul pavimento. La Haze, senza fermarsi, lo raccolse con un brontolio e lo gettò in un armadio vicino alla dispensa. Esaminammo brevemente un tavolo di mogano con una fruttiera al centro, che conteneva soltanto il nocciolo ancora luccicante di una sola prugna. Frugai in una tasca per cercare l'orario, e di nascosto lo tirai fuori per consultarlo appena possibile. Camminavo ancora alle spalle della Haze attraverso la sala da pranzo, quando, più in là, scorsi un improvviso tripudio di verzura – «la loggia!» cinguettò la mia guida –, e poi, senza il minimo preavviso, un'azzurra onda marina si gonfiò sotto il mio cuore, e su una stuoia immersa in una polla di sole, seminuda, sdraiata, e poi in ginocchio, e poi voltata sulle ginocchia, ecco la mia innamorata della Costa Azzurra che mi squadrava al di sopra degli occhiali scuri.
Era la stessa bambina – le stesse spalle fragili e sfumate di miele, la stessa schiena nuda, serica e flessuosa, gli stessi capelli castani. Un foulard nero a pois, annodato sul petto, nascondeva ai miei occhi di attempato scimmione, ma non allo sguardo della giovane memoria, i seni immaturi che avevo accarezzato un giorno immortale. E come la nutrice nella fiaba della principessina (perduta, rapita, scoperta nei laceri panni di una zingarella, attraverso i quali la sua nudità sorrideva al re e ai suoi segugi) riconobbi il minuscolo neo bruno sul suo fianco. Sgomento ed esultante (il re che piange di gioia, lo squillo delle trombe, la nutrice ubriaca) rividi il suo adorabile addome rientrante, dove la mia bocca, diretta a sud, aveva brevemente indugiato; e quei fianchi puerili sui quali avevo baciato l'impronta merlata dell'elastico dei calzoncini – quell'ultimo, folle giorno immortale dietro le «Roches Roses». I venticinque anni che avevo vissuto da allora si affusolarono in una punta palpitante e svanirono.
Mi è molto difficile esprimere con forza adeguata quel lampo, quel brivido, quell'empito di appassionata agnizione. Nell'attimo iniettato di sole in cui il mio sguardo scivolò sulla bambina inginocchiata (le palpebre che battevano al di sopra di quei severi occhiali scuri – la piccola Herr Doktor che mi avrebbe guarito da tutti i miei dolori), mentre le passavo accanto travestito da adulto (un grande, possente, splendido esemplare di virilità hollywoodiana), il vuoto aspirante della mia anima riuscì a risucchiare tutti i dettagli della sua radiosa bellezza, che paragonai a quelli corrispondenti della mia promessa sposa defunta. Presto, naturalmente, lei, questa nouvelle, questa Lolita, la mia Lolita, avrebbe eclissato completamente il suo prototipo. Voglio solo sottolineare che, da parte mia, la sua scoperta fu una fatale conseguenza di quel «principato sul mare» del mio tormentato passato. Tutto, fra quei due eventi, era stato soltanto un susseguirsi di brancolamenti ed errori, di menzogneri embrioni del piacere. Tutto ciò che li accomunava ne faceva una cosa sola.
Ma non mi illudo: i miei giudici vedranno tutto questo come il ridicolo teatrino di un pazzo, un pazzo grossolanamente proclive al fruit vert. Au fond, ça m'est bien égal. Io so soltanto che mentre la Haze e io scendevamo in quel giardino dal fiato mozzo, le mie ginocchia erano come ginocchia riflesse nell'acqua increspata, e le mie labbra come sabbia, e...
«Quella era la mia Lo,» disse la Haze «e questi sono i miei gigli».
«Sì,» risposi «sì. Sono belli, belli, bellissimi!».